Il rapporto tra diritto, etica e sanità

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ugl sanità

di Antonio Calicchio

Quale fautore di una laicità dello Stato, che cioè dia a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, vorrei indirizzare l’attenzione su ciò che costituisce l’oggetto centrale del dibattito relativo ai “diritti”.

Mi sto riferendo non tanto ai diritti umani ampiamente e limpidamente recepiti e consacrati nella Costituzione repubblicana, rispetto ai quali non si rileva alcun dissenso tra le forze sociali, economiche, politiche e culturali (e la qual cosa dovrebbe essere di profondo conforto per tutti noi); quanto, piuttosto, ai cosiddetti “nuovi” diritti, e, in specie, a quelli di natura bioetica. In relazione ai quali, la vaghezza informativa ed educativa è deplorevole: eppure, queste (senza voler nulla togliere alle urgenze socio-economiche) rappresentano le autentiche sfide decisive del nostro tempo.

La democrazia è semplice e ragionevole. Ad una condizione, però: che i cittadini siano messi in grado di conoscere e di sapere, in maniera chiara e limpida, soprattutto le tematiche che oggi vengono definite “eticamente sensibili”, ad opera della bioetica.

Bioetica e biodiritto rappresentano due ordinamenti costruiti su sistemi normativi differenti, anche se correlati tra loro, e cioè sull’ordinamento dell’etica, da un lato, e su quello del diritto, dall’altro; ordinamenti che corrispondono – nel primo caso – alla contrapposizione bene/male e – nel secondo caso – alla contrapposizione giusto/ingiusto. Ma mentre il sistema etico, bene/male, trova il suo ambito di operatività nella relazionalità intersoggettiva, il sistema giuridico, giusto/ingiusto, trova il suo ambito di operatività nella relazionalità socio-istituzionale.

Quattro sono i modelli che si sono affermati: quello liberista, che riduce la giustizia alla libertà, ma non tanto a quella individuale, quanto a quella che si esplica nell’ambito di una convivenza generale di libertà, in un ordinamento giusto, che vieti ed impedisca di attribuire il potere al più forte; quello procedurale, che riduce la giustizia all’applicazione delle regole, concretamente ed universalmente condivise; quello garantista, teso alla protezione dei soggetti deboli e alla rimozione di situazioni di fragilità sociale; quello promozionale, sancito dal diritto costituzionale ed internazionale della maggior parte degli Stati contemporanei, che vede nella massimizzazione della giustizia, la massimizzazione del bene umano oggettivo, cioè del bene umano sociale generale, come confermano le più recenti esperienze giuridiche internazionali, sfociate nell’approvazione della Dichiarazione Universale del Genoma Umano e dei Diritti Umani, nel 1997 e della Dichiarazione Internazionale sui Dati Genetici Umani, nel 2003, oltreché nella promulgazione, nel 2005, della Dichiarazione Universale sulla Bioetica e i Diritti dell’Uomo.

Modelli, quelli testé descritti, che riconducono al rapporto tra giustizia e sanità.

Ed infatti, dal sistema sanitario si esige non solo funzionalità ed efficienza, ma anche giustizia. La prima necessità – quella della funzionalità e della efficienza – è sollevata in nome della razionalità politica, mentre la seconda – quella della giustizia – è posta in forza della morale. E’ inaccettabile un ordinamento della sanità in cui alcuni cittadini hanno, per motivi di censo o privilegio, servizi garantiti, ed altri sono privi di tutela. In nessun altro settore, come quello sanitario, ha maggior valore il principio di uguaglianza: “davanti alla malattia e alla morte tutti gli uomini sono uguali”, asserisce la saggezza tradizionale, conformandosi ad una esigenza democratica e di giustizia, che regge la convivenza civile.

Tuttavia, il contrasto tra risorse sanitarie ed esigenze di giustizia è enorme, considerato l’insieme del pianeta. Si può dire, quindi, a seguito di un recente “Rapporto sulla situazione sanitaria nel mondo”, stilato dall’OMS (organizzazione mondiale della sanità), che la situazione patologica delle popolazioni delle Nazioni industrializzate e del c.d. Terzo Mondo si presenta con tratti marcati di differenza palesemente ingiusta. Nell’ambito dei Paesi sviluppati, che hanno raggiunto, ormai, una speranza di vita che si colloca tra gli 80 anni per le donne e i 75 per gli uomini, i decessi prematuri sono causati, anzitutto, da malattie cardiocircolatorie e secondariamente dal cancro (tipiche malattie del benessere); in terzo luogo, da incidenti. Il quadro dei Paesi a basso indice di industrializzazione si configura in modo che le malattie infettive e parassitarie predominano, e la prospettiva di vita appare notevolmente ridotta.

La dizione “Paesi in via di sviluppo”, non può più essere utilizzata, poiché si tratta di una dizione ipocrita; ed infatti, mentre i Paesi industrializzati consacrano alla sanità il 5-6 % del loro bilancio, gli altri vi dedicano solo il 2-3% delle loro risorse. E lo scarto è destinato ad accrescersi e il sottosviluppo a cronicizzarsi. Allo stato di “povertà assoluta”, in cui versano più di un miliardo di esseri umani, fa riscontro una miseria sanitaria assoluta. E ciò implica che l’ambizioso programma elaborato dall’OMS – “Salute per tutti per l’anno 2020” – non può essere attuato senza un nuovo ordine sanitario internazionale. L’esistenza di disparità sul piano mondiale grava sulla bioetica. Ma la discussione etica di queste problematiche si rivelerà una mera esercitazione retorica, speculativa, quando non addirittura mistificatoria, finché vi saranno persone che muoiono per mancanza di cibo o cure elementari, finché questa condizione – effetto di una organizzazione economica mondiale ingiusta – non sarà modificata.

I problemi della giustizia non sono certo meno drammatici, riguardo ad un contesto geo-politico più ristretto, quale può essere l’Italia, ove si considerino i cambiamenti intervenuti nel modo di concepire la salute. In particolare, il centro di questi problemi risiede nel mutato ruolo dello Stato in merito alla sanità.

Nelle società primitive, si lasciava morire di fame i vecchi o li si induceva ad autosopprimersi per non essere più di peso. Già l’antichità, ritenendo che i bisognosi rappresentassero un pericolo pubblico,  realizzò forme di assistenza, fondate non sul principio del merito (come per i vecchi legionari romani), ma su quello della necessità: così, il “panis popularis”, nella Roma del Basso Impero. Il Cristianesimo, ha introdotto il valore e la virtù della carità. Sviluppando le forme di assistenza, come gli ospedali, che sopravvivono ancora oggi. Con l’avvento dell’Illuminismo, l’assistenza è stata secolarizzata e devoluta allo Stato. Rousseau, nella sua opera Il Contratto Sociale, sostiene che la società, a profitto della quale l’individuo ha alienato una parte della sua libertà, deve, in cambio, farlo beneficiare di una organizzazione priva di difetti. Lo stato di bisogno equivale ad una violazione del contratto sociale e la società deve riparare questa mancanza al suo obbligo contrattuale.

Le istituzioni della previdenza sociale, che, in epoca di liberalismo, riguardavano la classe operaia, hanno, poi, iniziato ad estendersi sino a coprire tutti i cittadini, perché ogni soggetto, in quanto tale, ha diritto ad una garanzia dallo Stato per ciò che concerne le esigenze della salute. E da questo spirito è sorto, nel 1978, in Italia, il Servizio Sanitario Nazionale, nel segno di un duplice ideale di promozione della persona umana e di tutela del benessere della salute.

E’ da rilevare, comunque, che nella condizione umana sono immanenti due connotazioni essenziali: la limitatezza e la finitudine; le quali, più che un ostacolo, costituiscono una risorsa esistenziale fondamentale. Tant’è vero che, proprio in quanto finito e limitato, ciascuno è in relazione, vale a dire che si trova ad essere-con-l’altro. E la sofferenza non solo alimenta la possibilità di ri-scoperta del proprio “sé”, ma rappresenta l’opportunità primaria di apertura all’altro, di essere-per-l’altro. In ciò consiste la risorsa che emana dal dolore, ovverosia nel sottrarre l’uomo dall’isolamento, per situarlo in un contesto di reciproca solidarietà con l’altro. Non in modo meccanico, come potrebbe risultare nell’attuale clima storico-sociale, in cui lo sfaldamento dei rapporti intersoggettivi tende a chiudere ciascuno in se stesso, privando, così, la sofferenza del suo spazio per manifestarsi ed essere condivisa. E, quindi, proprio la limitatezza e la finitudine dell’individuo possono restituire alla civiltà dell’Occidente il senso autentico di una libertà, vissuta ed esercitata con la vita, nei suoi momenti brillanti o nelle sue fasi drammatiche. Ed è la società che, davanti alla sofferenza della persona, dovrebbe darsi carico della fragilità dell’esistenza umana, accollandosene i pesi e diminuendone le prove: la riduzione del dolore, insieme alla terapia e al conforto, è, purtroppo, una meta da raggiungere, esistendo, ancor oggi, una rilevante differenza tra “dover-fare” e “fare”, tra “dover-essere” ed “essere”, tra “valore” e “fatto”. Occorre, poi, far emergere la sofferenza dalla solitudine, sensibilizzando tutti  a soccorrere il più debole, in modo da poter superare definitivamente qualunque forma di paura rispetto alla sofferenza stessa, anziché tentare di esorcizzarla rivolgendo altrove l’attenzione.

Tuttavia, che l’uomo sia un essere vivente che riceve la vita, è consapevolezza che scaturisce da una elementare constatazione: noi non ci siamo autogenerati, ma originiamo da un misterioso intersecarsi e legarsi di eventi che ci fanno vivere, hic et nunc. Nessuno dona la vita a se stesso. Nella Physica di Aristotele si sostiene che “il sole e l’uomo generano l’uomo”, perché in assenza del sole, la vita si dimostra impossibile. La vita, quindi, ci precede e rende ognuno unico e irripetibile, pur nella sua precarietà e contingenza. La vita ha valore in sé e per sé, in modo universale, inviolabile e assoluto, perché l’essere umano, ogni essere umano – vecchio o malato che sia – è persona, un fine in sé, diceva Kant. E la persona è principio, soggetto e fine di tutte le istituzioni sociali, giuridiche, politiche, le quali devono riconoscere e garantire la dignità dell’uomo, i suoi diritti fondamentali ed inalienabili. E lo sguardo di chi non pretende di impossessarsi della realtà, ma la coglie come un dono, coincide proprio con quello stesso sguardo che non si arrende sfiduciato di fronte a chi è nella malattia, nella sofferenza, nella marginalità e alle soglie della morte; ma da tutte queste situazioni si lascia interpellare per andare alla ricerca di un senso e, proprio in queste circostanze, si apre a ritrovare nel volto di ogni persona un appello al confronto, una chiamata al dialogo, un richiamo alla solidarietà.

Del resto, la vita esprime una sua radicale e naturale bellezza, dal momento che trascende lo spazio e il tempo, oltre ogni materialismo. In questa prospettiva, etica ed estetica si legano e la speranza ritrova il suo luogo più alto.

L’uomo è per la vita. Tutto in noi spinge verso la vita, condizione indispensabile per amare, sperare e godere della libertà; il dramma della sofferenza e la paura della morte – sotto il profilo antropologico – non possono, e non debbono, oscurare questa evidenza. Perfino nelle condizioni più gravi, ciò che la persona trasmette in termini affettivi, simbolici, spirituali riveste una straordinaria rilevanza e tocca le corde più intime del cuore umano. Esistono malattie inguaribili, non malattie incurabili: la condivisione della fragilità restituisce a chi soffre la fiducia, e il coraggio a chi si prende cura dei sofferenti.

La vera libertà per tutti – credenti e non – non è altro che quella di scegliere a favore della vita: bisogna dire “sì” alla vita, perché solo in questo modo è possibile edificare il vero bene umano, individuale e sociale. In qualità di cittadini, siamo ben consci che la Costituzione italiana tutela e salvaguarda i diritti umani non già come principi astratti, bensì come presupposto reale della nostra vita storica, che è, nello stesso tempo, fisica e psichica, privata e pubblica.

E solamente rispettando la vita di ciascuno sino alla fine, c’è speranza di futuro per tutti.