Verso una concezione dello Stato “leggero” tra economia e beni culturali

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Niccolò Machiavelli

di Antonio Calicchio

“Tutti li stati, tutti e’ dominii che hanno avuto et hanno imperio sopra li uomini, sono stati e sono o republiche o principati”: si tratta dell’incipit del Principe di Machiavelli, ad evidenziare che il termine Stato si è imposto attraverso la diffusione e il prestigio di quest’opera.

Ciò non significa che quel termine sia stato introdotto da Machiavelli in quanto, nel linguaggio del sec. XV e XVI, il passaggio dal significato della parola status da “situazione” a “Stato” nel senso moderno, si era già verificato, isolando la prima parola nella classica espressione status rei publicae. Grazie a Machiavelli, il termine “Stato” sostituì – lentamente e gradatamente – le espressioni tradizionali indicative della massima organizzazione di un gruppo su un territorio, in forza di un potere di comando: civitas che traduceva il greco pòlis, e res publica con cui i giuristi romani designavano le istituzioni politiche romane, appunto della civitas.

Nasce, in Europa, nel sec. XV, lo Stato moderno, in concomitanza al disfacimento dell’ordinamento feudale e al sorgere – in Francia, in Inghilterra, in Spagna – delle monarchie nazionali che sfociano, nel sec. XVI e XVII, nello Stato assoluto, sulla base del principio rex facit legem: si pensi all’espressione di Luigi XIV, per cui “l’état c’est moi”, nel senso che lo Stato assoluto si configura come Stato patrimoniale, cioè di proprietà del sovrano, al di sopra delle leggi. Lo Stato moderno, poi, assume la connotazione di Stato liberale, nel corso del sec. XVIII e XIX, rimanendo pur sempre una monarchia, non più assoluta, bensì costituzionale, con una base sociale ristretta all’aristocrazia e all’alta borghesia. A seguito delle conquiste socio-politiche delle masse operaie, sulle ali delle idee liberali e democratiche, ispirate alla rivoluzione francese ed a quella americana, si afferma lo Stato contemporaneo o Stato liberal-democratico o Stato costituzionalmente moderno, nei primi decenni del secolo scorso, che è una forma di Stato interventista nel settore economico, fondato sull’ampliamento della base popolare alla partecipazione alla vita pubblica e sul riconoscimento dei diritti collettivi fondamentali; in esso, il sovrano è persona distinta dallo Stato, di cui è organo, in virtù del principio lex facit regem e di quello della c.d. divisione dei poteri, poteri non più accentrati nella figura del sovrano, ma attribuiti ad organi diversi. Lo Stato democratico è uno Stato di diritto, caratterizzato dalla separazione dei poteri, come teorizzata da Montesquieu, dal principio di uguaglianza e dal riconoscimento costituzionale di diritti fondamentali personali del cittadino. Quello italiano è uno Stato di diritto, sin dal 1848, ovverosia dalla promulgazione dello Statuto albertino. Lo Stato democratico è uno Stato costituzionale e lo Stato costituzionalmente moderno è uno Stato rappresentativo. Il nostro Stato è uno Stato di diritto, costituzionale e rappresentativo, sin dal 1848, la cui sovranità si concretizza nella funzione normativa (affidata al Parlamento), nella funzione esecutiva (attuata dal Governo) e in quella giurisdizionale (esplicata dalla Magistratura); è una persona giuridica pubblica che ha conseguito, con l’entrata in vigore della Costituzione del 1948, una forma di governo repubblicana, di tipo parlamentare.

Dal tratteggiare la concezione dello Stato nell’età moderna e contemporanea, si arguisce come esso abbia subito una evoluzione storica; e se il sec. XIX si è chiuso registrando la fine del liberal-liberismo, seguita dalla realizzazione dell’intervento statale nell’ambito economico e dalla pianificazione, il sec. XX si è concluso con ulteriori mutamenti: agli Stati si sostituiscono, nella disciplina economica, istituzioni sovranazionali; l’ordinamento nazionale diviene parte di quello comunitario, cui è tenuto ad adeguarsi; e il diritto comunitario stabilisce le teste di capitolo del diritto pubblico dell’economia. Ciò che oggi si reclama è uno Stato sì solido, ma più leggero e meno invadente in cui l’assetto unitario dei poteri pubblici nazionali viene sostituito dallo Stato multiorganizzativo; in cui la gestione delle imprese, da parte di poteri pubblici, diminuisce; in cui si affacciano poteri indipendenti, sulla scia dell’Inghilterra ottocentesca e degli Stati Uniti; e in cui il diritto pubblico fa largo a un diritto misto, pubblico e privato insieme.

Spesso lo Stato, sebbene se ne sia avvalso, tuttavia non ha inteso riconoscere le realtà autonomamente sorte nella società e preesistenti all’ordinamento; ha preteso, invece, sostituirsi ad esse e ingabbiarne la presenza e l’azione entro schemi rigidi. N’è derivata l’assoluta identificazione tra interesse pubblico (l’insieme delle esigenze e dei bisogni provenienti dalla comunità civile) e intervento da parte dello Stato. La presenza statale ha assunto così caratteri e dimensioni ben al di là del corretto rapporto pubblico/privato e Stato/società civile, con una crescita esponenziale degli apparati burocratici.

Vi è, insomma, troppo Stato e poca società. Nel nostro Paese, si sono identificate, in modo rigoroso, la sfera del mercato privato, dell’esclusivo interesse individuale e quella dello Stato, degli interessi collettivi: di qui, il dualismo basato sull’identificazione dello Stato con l’ambito del pubblico e del mercato privato con l’ambito delle imprese for profit. Tale dualismo – similmente a quello liberismo/interventismo – oggi, nell’era della globalizzazione, non riesce ad esprimere più la complessità della società in cui numerosi cittadini manifestano la volontà di contribuire a decidere le modalità di offerta dei beni che essi chiedono come utenti e consumatori. Pertanto, compito della politica diviene come, mediante quali strumenti e verso quali obiettivi dare risposta a questa esigenza nel contesto generale della società civile. Non è più sufficiente il pluralismo “nelle” istituzioni economiche, ma vi è bisogno di pluralismo “delle” istituzioni economiche.

Compito essenziale della politica è anche quello, dunque, di riconoscere la presenza ed il ruolo della società civile e la sua capacità di esprimersi a livello economico. E’ invalsa una diversa concezione dello Stato, delle sue articolazioni e delle sue relazioni con la società civile; occorre proseguire lungo la strada del riconoscimento che esistono beni e servizi di pubblica utilità che possono essere erogati da soggetti diversi dallo Stato e stabilire che essi possano essere finanziati direttamente dai cittadini.

Ma importante è anche interpretare questi fenomeni nel campo del diritto perché, da un lato, essi non saranno pienamente compresi finché non se ne farà un’analisi giuridica; dall’altro, essendo la disciplina giuridica dei rapporti fra Stato ed economia l’ala marciante del diritto pubblico, l’analisi di quei rapporti, nella dimensione giuridica, è indispensabile per comprendere lo sviluppo del diritto dello Stato.

Lo Stato deve oggi diventare leggero, ma, al contempo, solido e coerente nel raggiungimento delle sue finalità: assumere, in proprio, lo svolgimento delle sole funzioni relative alla sua sovranità; garantire il quadro di indirizzi necessario affinché gli altri livelli istituzionali e territoriali esercitino le loro funzioni in coerenza con le politiche generali del Paese; e saper regolare, coordinare ed integrare quanto la società promuove. Lo Stato leggero, che oggi si va affermando, non può escludere l’idea di privatizzare l’erogazione di taluni servizi, affrontando anche – in termini e modalità compatibili con le possibilità del sistema – la questione del finanziamento dei relativi costi. Però, alla flessibilità strutturale ed organizzativa, deve far riscontro una aderenza ai principi, agli obiettivi ed alle regole generali: quanto più ampio è lo spazio lasciato ai privati nella fornitura di particolari beni e servizi riguardanti la comunità, tanto più forte deve essere, da parte dell’ordinamento, la garanzia, nell’interesse generale, della coerenza con le politiche generali del Paese. Il tutto, però, tenuto conto dell’esigenza per cui ogni ordinamento statuale, vero e sano, deve essere al servizio della persona umana. Un servizio difficile che si svolge in una società pluralista, ma quanto mai necessario, se si intende aiutare davvero l’uomo, assicurandogli una vita sociale equilibrata e giusta. Un servizio di cui necessita la società, se si vuole farne una società giusta e degna di questo nome. E per realizzare questo ideale bisogna riconoscere la dignità e i diritti fondamentali dell’uomo, i suoi doveri e i suoi bisogni, le sue possibilità di azione e di sviluppo, in relazione all’ambiente in cui vive e alle risorse di cui dispone. Il diritto oggettivo deve rispondere a questa immagine di uomo, deve tener presenti quelle prospettive sempre nuove che tanto la riflessione filosofica e scientifica, quanto il giudizio della coscienza individuale, aprono.

Molta parte di questo cammino è ancora da compiere. Per un tratto, esso è affidato al dibattito intorno al principio di sussidiarietà e alle sue reali ricadute; per altri aspetti, invece, esso investe il campo della legislazione ordinaria e dei provvedimenti amministrativi che debbono muoversi lungo una linea di coerenza. Ed infatti, nonostante più di uno invochi l’effettuazione del referendum in questa materia, tuttavia è da rilevare che è il Parlamento che deve definirla, è il legislatore che deve esaminarla; è nella sede parlamentare e non certo per mezzo di secche alternative tra il “sì” e il “no” degli elettori che bisognerà valutare le soluzioni astrattamente possibili, cercando vie d’uscita che raccolgano i consensi di larghe maggioranze. Se poi tali strade si rivelassero impraticabili, allora ciò vorrebbe dire che quella italiana è una democrazia sfinita. E, in questo caso, nessun referendum, comunque congegnato, basterebbe a risollevare il nostro Paese.

Il referendum è uno dei tanti strumenti che la storia costituzionale ha trasformato, a fronte delle originarie previsioni. Ancora agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, allorché si ebbe la consultazione popolare sul divorzio, si pensava, in linea generale, che dovesse trattarsi di un rimedio estremo, da impiegare nei soli casi in cui la maggioranza parlamentare si ponesse in rotta di collisione col corpo elettorale. Ad ogni altro effetto, la “regola” della democrazia rappresentativa avrebbe dovuto prevalere sulla “eccezione” costituita dalla democrazia diretta. Per contro, dal 1978 in poi, le ondate referendarie si sono succedute con frequenza crescente. D’altronde, le Camere sono sempre meno in grado di prevenire le consultazioni dichiarate ammissibili, modificando le leggi assoggettare al voto. Ed ancora: le ricorrenti abrogazioni referendarie concorrono ad intasare il Parlamento, data l’esigenza di riempire i vuoti così generati; talché, la crisi del potere legislativo rappresenta – ad un tempo – una concausa ed un effetto dei referendum. In queste circostanze, sarebbe forse occorso – ed occorrerebbe ancora – restringere il numero delle richieste sottoponibili al voto popolare, durante ogni singolo anno; ma di simili riforme, al pari di tante altre, si ragiona invano, sin dal 1978. Non è, dunque, il caso di stupirsi se l’interlocutore principale dei promotori è divenuta la Corte Costituzionale la quale, infatti, non si limita ad applicare l’art. 75 Cost., dichiarando inammissibili le richieste vertenti in materie costituzionalmente escluse, come quella tributaria o quella relativa alla ratifica dei trattati internazionali. Essa ha dovuto, più volte, porsi il problema dei referendum produttivi di implicazioni incompatibili col sistema costituzionale. Dichiarare illegittimi gli esiti di voti popolari già effettuati sarebbe stato giuridicamente possibile, ma avrebbe generato autentici drammi sul piano politico ed istituzionale. Ed invece, è questa la ragione che ha indotto la Corte ad estendere progressivamente le cause di inammissibilità, precludendo, in partenza, le consultazioni che potessero determinare situazioni di incostituzionalità.

In tema di beni culturali, che rappresentano, da sempre, una delle maggiori ricchezze della nostra nazione, benché soltanto adesso comincino ad essere effettivamente valutati come tali, in questo tema – si diceva – il concetto di Stato leggero testé esposto può essere chiarito pensando di non trasformare il “tesoro d’Italia” in un bunker armato in cui le opere vengano trattate come lingotti d’oro nel caveau di una banca. E’ difficile immaginare che si possano dotate tutti i musei italiani di sistemi come quelli delle banche o dei grandi musei americani che sono, comunque, un numero limitato. In America, i musei potranno essere 150; noi ne abbiamo 3500, alcuni dei quali sono parrocchiali, comunali o provinciali. Immaginare di poter dotare una struttura così articolata di musei, di una guardieria come quella delle banche è, forse, pensabile con una attesa, comunque, in prospettiva, molto alta e certo molto articolata. Ma quella spesa dovrebbe essere limitata non ai musei, ma anche a tutte le chiese, a tutti i palazzi, quindi, ad almeno 300.000 luoghi, dico 300.000 unità, cui vanno aggiunti tutti i luoghi all’aperto che rendono l’Italia un museo tutta intera. E, quindi, dovremmo blindare l’Italia. Se così fosse, allora quei beni smarrirebbero molta della loro utilità in quanto la loro funzione si esplica attraverso la possibilità della sua fruizione ordinaria. Quale funzione avrebbero capolavori che non possiamo continuamente ammirare per motivi di tutela? Il vero problema fondamentale è un altro: è l’educazione di base alla cultura e all’arte in particolare che manca, sin dai tempi della scuola, in almeno otto italiani su dieci. Si pensi al restauro degli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina che oggi, con serenità, si può giudicare un restauro contrario all’immagine storica di Michelangelo che è improvvisamente diventato un artista pop con durezze nel disegno e nel colore che non gli appartengono. Non per colpa dei restauratori, ma per una serie di ragioni legate a rifiniture a secco, perdute durante i secoli che il restauro non ha potuto risarcire, restituendoci la base dei colori puri e abbaglianti, certo simile all’effetto originario, ma senza la correzione di quegli interventi a secco che sicuramente restituirono unità e armonia all’insieme quali oggi non si possono più avvertire. Faccio questo richiamo per sottolineare che quel restauro fu superfluo. E’ singolare e paradossale che Michelangelo abbia avuto assistenza dov’era superflua e non l’abbia avuta dov’era necessaria. E’ evidente che la struttura che è sottoposta a continue vibrazioni del traffico e al peso delle strutture sovrastanti richiedeva un controllo costante di natura non estetica. Si è privilegiato il restauro estetico della Cappella Sistina e si è trascurato di fare ciò che avrebbe comportato non un effetto visibile e vistoso, ma la pura e necessaria conservazione di un monumento. Per chi non ha interesse per le questioni storico-artistiche, basti dire che sarebbe come preoccuparsi di riverniciare la carrozzeria di un’automobile, senza mai fare i tagliandi al motore. La salvaguardia della struttura va ricondotta all’uso e all’abuso delle città storiche attraverso il traffico automobilistico, il passaggio di autobus e la pressione fisica delle strutture. Le vibrazioni, le pressioni e il movimento sulla superficie esterna possono certo, lentamente, nel corso dei decenni, determinare lesioni e cedimenti. Occorre limitare il traffico automobilistico nei centri storici, restituirli alla loro dignità e spiritualità, programmare le verifiche periodiche alle condizioni di stabilità degli edifici monumentali di maggior rilievo. L’imprevedibile può accadere. Per Michelangelo occorre prevederlo. E, quindi, bisogna andare oltre il rigore e la serietà e, in casi come questi, essere capaci di prevedere l’imprevedibile. Perché l’arte è esperienza di universalità; non può essere soltanto oggetto o mezzo. E’ parola primitiva, è parola dell’origine che scruta, al di là dell’immediatezza dell’esperienza, il senso della vita. E’ conoscenza che il concetto sa riconoscere come proiezione sull’arcano della vita: aperture, quindi, sul profondo, sull’alto e sull’inesprimibile dell’esistenza. L’arte conduce l’uomo ad avere coscienza di quell’inquietudine che sta al fondo del suo essere e che né la scienza – con la formalità oggettiva delle sue leggi – né la tecnica – con la programmazione che salva dal rischio dell’errore – riusciranno ad appagare.