In nome dell’efficienza e della razionalità tecnica

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L’uomo, con le sue emozioni e i suoi sentimenti, è divenuto un algoritmo in mano alla tecnica? Come progettare, dunque, il nostro futuro?

di Antonio Calicchio

In una società sovrastata dalla scienza e dalla tecnica rimarranno margini alla prospettiva giuridica, politica, morale, umana od umanistica? Dall’antica Grecia all’attuale generazione dei nativi digitali, cosa è divenuto l’uomo e cosa il futuro gli riserva?

Orbene, se è vero che nella dimensione dell’antichità greca la relazione uomo/natura si configurava come relazione equilibrata, non è meno vero che nel secolo della scienza moderna, cioè il Seicento, siffatta concezione si modifica. Ed infatti, al valore della natura si sostituisce quello della tecnica, ossia una mentalità che obbedisce soltanto a principi di efficienza e razionalità.

Del resto, nel metodo scientifico cartesiano l’uomo diviene padrone del mondo, e le sue ipotesi, qualora confermate dagli esperimenti, assurgono a leggi di natura. L’umanesimo sta prendendo piede e la natura, al contrario, arretra.

Il personaggio che, in Eschilo, si mostrava portatore della conoscenza tecnica, Prometeo, viene liberato nel mondo e, quindi, si “scatena”.

E così, nel secolo XIX, la tecnica diviene il fine principale dell’uomo, la condicio sine qua non mediante cui realizzare il “progresso”. Tuttavia, il problema sussiste pure nel mondo odierno: ed infatti, il sapere tecnico è a-finalizzato e, in quanto tale, genera un complesso di conseguenze, per cui non esistono più il diritto, la politica, la morale, l’umanesimo essendo l’uomo divenuto un algoritmo tenuto in scacco dalla tecnica.

Però, in mancanza di questi essenziali “indicatori”, l’uomo smarrisce ogni suo fondamentale orientamento, posto che il dominio tecnico e il progresso lo hanno ridotto a mero strumento per realizzare uno scopo.

Ma i fini dell’economia, che si rivela indirizzata unicamente alla crescita, coincidono coi fini dell’uomo? O egli è divenuto semplice strumento dell’ideologia della crescita, che lo impiegherebbe come elemento della sua organizzazione, semplice irrilevante anello della sua catena oppure mezzo imprescindibile, ma anche fra i più intercambiabili di qualunque altro mezzo, entro un sistema economico divenuto fine a se stesso?

Come progettare, dunque, il nostro futuro?

Nello scenario delineato, alle molte ombre si alterna un qualche barlume propiziatore di speranza costituito dalle emozioni, come si premura di evidenziare Galimberti, atteso che la parte più antica della psiche umana – collegata al sentimento, al vissuto soggettivo, ai propri rapporti sociali – cioè, la sfera emozionale, acquista un ruolo cruciale in questo tormentato panorama. In una contemporaneità torchiata dal “pensiero calcolante” della tecnica, si sollevano voci nei riguardi di questa razionalità efficiente: “L’emozione” – spiega, ancora, Galimberti – “non si pensa, si vive”. Essa, ad avviso di Sartre, “ordinariamente considerata come un disordine senza legge, possiede un significato proprio, e non può essere colta in se stessa senza la comprensione di questo significato.”

D’altra parte, i modelli da cui muovere sono quello scientifico (o platonico-cartesiano, che qualifica l’uomo come formato da corpo ed anima, attribuendo le emozioni al corpo) e il modello filosofico (o fenomenologico, che descrive i fenomeni come si vedono, qualificando l’uomo come corpo, in rapporto al “mondo”).

Ma come si vivono le emozioni nella nostra epoca, segnata dalla diffusione della razionalità tecnica? In forza di un’ambivalenza emotiva, per cui si verifica, per un verso, la emarginazione delle emozioni, come impone una simile razionalità, e, per altro verso, una reazione nei confronti di questa razionalità, che si sostanzializza in un ripiegamento emotivo nel proprio sentimento assunto come unica norma di vita.

Non si trascurino, altresì – come sottolinea Galimberti – altri due elementi, ovverosia l’ostentazione dei propri vissuti personali, per obiettivi esibizionistici, nonché la mercificazione delle emozioni. E a siffatto utilizzo non si sottrae neppure la politica, nei suoi risvolti populisti.

Da ciò scaturisce la necessità di vigilare sull’avvenire dei nativi digitali, per comprendere che la rete è non un “mezzo” da adoperare a loro piacimento, bensì una “dimensione” – che è concetto differente dal “mezzo” – in cui sono inseriti. Dimensione che li codifica a loro stessa insaputa, trasformando il loro modo di pensare e sentire, con conseguenze tali non solo da rendere, spesso, difficile la distinzione fra virtuale e reale (c.d. de-realizzazione), ma anche da creare quella solitudine di massa propria di coloro i quali agiscono e comunicano solamente con la rete, in assenza, invece, di quella competenza sociale che non si conquista dal web (c.d. de-socializzazione).

E quali conseguenze determina la digitalizzazione scolastica in ordine alla educazione delle emozioni e dei sentimenti degli alunni, tenuto conto del cambiamento antropologico che, per effetto dell’affermazione dell’informatica, ha provocato il predominio dell’homo videns su quello sapiens?

La scuola non deve unicamente “istruire” ed “informare”, ma deve, inoltre, “educare” e “formare”, prendendo in seria considerazione questo cambiamento, insieme alla soggettività e specificità di ciascun allievo, perché, in mancanza di una educazione alle emozioni e ai sentimenti, la mente fatica ad aprirsi. Educazione che deve condurre lo studente all’evoluzione, facendogli effettuare il passaggio dalle “pulsioni” (che sono un fatto naturale) alle “emozioni” e ai “sentimenti” (che sono un fatto culturale). E ciò non può avvenire che attraverso lo studio dell’arte, della letteratura, in cui si impara cos’è l’allegria, il dolore, il dramma, l’entusiasmo, ecc. Dato che le scuole – da quelle professionali ai licei – non sono altro se non istituti di “formazione”, nel senso che devono formare l’uomo, mentre le competenze si ottengono all’università. “Non è un uomo” – prosegue Galimberti – “colui che è competente senza avere alle spalle una formazione che gli consenta di svolgere con retto giudizio e adeguata comprensione la professione che in seguito sceglierà”.

All’attuazione di tale passaggio educativo concorrono due basilari presupposti: uno oggettivo, per cui le scuole dovrebbero essere costituite di classi con 12/15 studenti, altrimenti non è possibile individuare le differenti intelligenze e i differenti percorsi emotivi di ogni studente; e un presupposto soggettivo, per cui i docenti dovrebbero possedere sia una preparazione in psicologia dell’età evolutiva, sia una capacità empatica e comunicativa, definita “fascinazione”. Essi dovrebbero essere sottoposti ad un test della personalità, poiché educare vuol dire – come detto – rapportarsi con la soggettività degli studenti.

Se, invece dei temi, si fa la comprensione del testo, allora si è impostata la valutazione sulla prestazione, piuttosto che sulla soggettività. Tutto ciò altro, comunque, non vale a testimoniare che la conformazione della scuola al modello tecnico, con l’effetto che i giovani hanno valore non come soggetti, ma esclusivamente come esecutori di prestazioni.

Non par dubbio che risulta più semplice correggere una comprensione del testo, che un tema; ma analogamente indiscutibile appare la trasmigrazione verso una educazione di tipo anglosassone, caratterizzata da empirismo, pragmatismo, valutazione oggettiva.

Se non si riesce ad affascinare, comunicare, allora non si può esercitare la professione di maestro,  professore. Come affermava Platone, si impara per imitazione. Ed anche il ruolo non dovrebbe più avere ragion d’essere. Cosa significa “di ruolo”? Nessuno è di ruolo nella vita. Se un insegnante non è capace di comunicare, di affascinare, allora dovrebbe cambiare lavoro. Si licenziano gli operai, che producono oggetti, perché non lo si fa per coloro i quali formano le persone?