Sacco e Vanzetti novant’anni dopo

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di Antonio Calicchio

Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, erano due emigranti italiani, giustiziati, nel 1927, e riconosciuti vittime di un errore giudiziario, a distanza di 50 anni, nel 1977, dallo Stato americano.

I due italiani erano innocenti. Il 14 aprile 1920, si verificò una rapina, in una fabbrica di South Braintree, nell’area di Boston, e, fuggendo, i rapinatori uccisero due guardie, Ferderick Parmenter e Alessandro Berardelli, della “Slater and Morrill”; il 5 maggio dello stesso anno, Sacco e Vanzetti – rispettivamente calzolaio e pescivendolo – vennero arrestati alla fermata di un tram, a West Bridgewater. Trovati in possesso di un giornale anarchico e di volantini di propaganda, furono trascinati al comando di polizia, dove il capitano Connoly, che indagava, senza successo, in merito a quanto accaduto, a South Braintree, mediante l’ausilio di falsi testimoni, formulò una accusa indiziaria contro i due italiani, per quel grave fatto criminale. Si trattava di due analfabeti immigrati, anarchici: ciò fu sufficiente per promuovere nei loro confronti una parodia di processo. Il giudice fu tal Thayer e l’accusatore il procuratore Katzmann, due xenofobi; il 10 luglio 1921, Sacco e Vanzetti furono condannati alla sedia elettrica per la rapina e gli omicidi di South Braintree. Iniziò l’estenuante lotta per salvarli che durò sei anni. In tutti i Paesi del mondo vi furono manifestazioni a favore dei due italiani, i più importanti uomini dell’epoca domandarono la grazia, migliaia di persone scesero in piazza, a Londra, a Parigi, a Berlino, a Mosca, a Calcutta, a Bruxelles, ma invano, perché, il 23 agosto 1927, Sacco e Vanzetti, innocenti, vennero giustiziati.

Vanzetti, quando fu arrestato, nel 1920, era, più o meno, analfabeta, ma, nei sette anni trascorsi in carcere, aveva letto e studiato; ciò gli ha dato la possibilità di lasciare parole nobili: ed invero, quando, poco prima dell’esecuzione, il sacerdote padre Michael Murphy, cappellano della casa di pena, il penitenziario di Charlestown (nel Massachusetts), andato a portargli gli ultimi conforti religiosi in cella, gli disse che anche Cristo era stato ucciso da una società ingiusta e crudele, Vanzetti replicò: “Non credo, padre, che i suoi superiori approverebbero l’idea di paragonare me e Sacco a Cristo e la nostra morte alla Sua morte. Noi non siamo martiri, non siamo profeti, non portiamo alcuna buona novella. Noi siamo nati per vivere umilmente, per lavorare come formiche e così abbiamo vissuto. Poi, un giorno, ci siamo resi conto che i nostri doveri ci davano anche dei diritti e abbiamo detto ad alta voce: ‘Fateci vivere meglio’. In  quel momento, un ingranaggio si è messo in moto e ci ha aggrediti e stritolati. Se non fosse stato per tutte queste cose, non avremmo trascorso le nostre esistenze a parlare per le strade ad uomini indifferenti. Saremmo morti come sconosciuti, inosservati come due falliti. Mai avremmo sperato di poter fare tanto in favore della tolleranza, della giustizia, per la comprensione tra gli uomini, quando facciamo adesso per un puro caso. Le nostre parole … le nostre vite … le nostre pene … sono niente! La vita di un buon calzolaio e di un povero pescivendolo sono poca cosa, togliercela è tutto ciò che questa società ingiusta può fare. Quest’ultimo momento appartiene a noi, padre, soltanto a noi due. Quest’agonia è il nostro trionfo”. I due condannati vissero le ultime ore con contegno. Mangiarono zuppa, carne e pane tostato. Furono sforbiciati loro i capelli e fu inciso un lungo taglio verticale ai loro pantaloni per posizionare gli elettrodi quando si sarebbero seduti sulla sedia. Poco dopo, prima di salire su di essa, i due ebbero ancora la nobiltà di perdonare i loro persecutori, il giudice Thayer e il procuratore Katzmann, persecutori di cui si è persa la memoria collettiva. Alle 23.30, iniziarono ad arrivare i testimoni ufficiali e a mezzanotte e 27 minuti era tutto finito, al cospetto del direttore del carcere Warden Hendry e dell’ “elettricista di Stato” Robert Green Elliott. In nome dei due emigranti italiani esiste, in America, un movimento che si batte per l’abrogazione della pena di morte. Dopo l’esecuzione dei due italiani, Romain Rolland disse: “Io non sono americano, ma amo l’America. Però, accuso di alto tradimento, verso gli Stati Uniti, quegli uomini che hanno insudiciato la bandiera del loro Paese davanti agli occhi del mondo, commettendo questo ennesimo crimine giudiziario. La loro abominevole parodia della Giustizia ha distrutto i più sacri diritti dell’Umanità”. Nel 1977, a seguito del clamore suscitato dal film di Giuliano Montaldo, dalle molteplici manifestazioni e dal lavoro di revisione del processo promosso dal Comitato Internazionale per la Riabilitazione, il governatore del Massachusetts, Michael Dukakis, dichiarò, dopo aver ammesso l’iniquità del processo, che “ogni stigma ed onta vengano per sempre cancellate dai nomi di Sacco e Vanzetti”. Proseguiva il Governatore: “Il loro processo e la loro esecuzione dovrebbero far ricordare ai popoli civili del costante bisogno di munirsi contro la nostra suscettibilità al pregiudizio”. E se queste due figure di vittime, nel corso degli anni, non sono mai state obliate, si impone, ormai, una globale riabilitazione morale, giuridica, storica e sociale di Sacco e Vanzetti, condannati sulla base di pregiudizi politici e razziali, al termine di un processo-farsa in cui non è stato esercitato il diritto di difesa, perché “dirty italian”, “sporchi italiani”.

Questo caso giudiziario fu di natura, dapprima, nazionale e, successivamente, internazionale, giunto dagli USA in Europa, col coinvolgimento – come accennato – di leader politici e diplomatici di diverse nazioni, dei futuri primi ministri MacDonald e Herriot, di Stalin, di intellettuali come Anatole France, di scienziati come Albert Einstein, di scrittori come Thomas Mann. La condanna a morte dei due emigranti arrivò, forse, prima da governanti xenofobi, che da magistrati politicizzati, a nulla valendo i loro proclami di innocenza. Ma restano, a tutt’oggi, numerosi interrogativi, nel senso che non solo vi è chi ammette punti oscuri almeno quanto alla partecipazione di Sacco alla rapina, ma ritorna la domanda: quale fu la componente principale che ha sacrificato, sulla sedia elettrica, Sacco e Vanzetti? La nazionalità italiana o la convinta militanza anarchica? L’odio razziale o la red scare? La xenofobia scatenatasi intorno alla prima guerra mondiale che configurò qualunque dissenso antiamericano? O, sullo sfondo della Rivoluzione Russa, la paura dei “rossi”, dei sovversivi, contrastata anche con metodi illegali? I due elementi si intersecano in questo processo, in cui i testimoni a favore dei due italiani vennero screditati dal procuratore. E si intrecciano nel trasferimento dal caso Sacco e Vanzetti all’affaire internazionale, possibile per il carattere politico del processo, con un salto di qualità dopo che non solo larghe frange del mondo radicale o dell’immigrazione, ma anche intellettuali e giuristi liberali si associarono alle denunce di violazione del diritto e dopo che la strategia difensiva passò dalle aule giudiziarie alle piazze e sui giornali. Si sottoposero a processo due uomini per un illecito penale o, piuttosto, in quanto stranieri, italiani ed anarchici? Non soltanto la mobilitazione, originata attraverso proteste locali tra gruppi di estrema sinistra, nel tempo, aveva raccolto l’interesse di élites di diverso orientamento, ma, dal 13 luglio 1921, in cui la giuria aveva emesso il verdetto di colpevolezza, a gennaio 1927, quand’erano state rigettate le sei mozioni di riapertura del processo, il clima, negli USA, era mutato. Era scemata la paura di sei anni prima, era ridotta la conflittualità sociale, era stata varata una nuova legislazione in ordine all’immigrazione; e le immagini dei due imputati in carcere, a studiare il pensiero politico, avevano fatto presa, perfino, sui giuristi di Harward, sempre più persuasi trattarsi di questione di diritto, non di lotta di classe. Donde, un affaire che viene dilagando nel mondo, investe le cancellerie, sollecita i governanti; e, in questo quadro, si situa l’intervento del duce, di cui si ricordano le simpatie anarchiche giovanili e, poi, le trattative segrete col governo USA. Fra il 1920 e il 1922, nell’appropriarsi del caso per farne un simbolo nazionalista, convinto che il sostegno a Sacco e Vanzetti avrebbe accresciuto l’attaccamento degli italo-americani verso un regime protettore degli emigrati. Poi, una volta al potere, con trattative segrete, tenta di ottenere la grazia ai due italiani. “Utilizza ogni mezzo per incontrare il presidente degli Stati Uniti nell’interesse di Sacco e Vanzetti”, telegrafava ancora all’ambasciatore De Martino, a Washington, il 9 aprile 1927; e, il 5 agosto, scriveva “Mi sono occupato assiduamente della situazione di Sacco e Vanzetti”, confessando di aver fatto “tutto ciò che era possibile, compatibilmente col diritto internazionale, per salvarli dall’esecuzione”. Non senza contraddizioni, stante la repressione interna dei vari movimenti antifascisti, senza tralasciare il tornaconto all’immagine del regime. Pure nella sua “difesa”, almeno alla luce delle carte custodite nell’Archivio Storico Diplomatico di Roma, vi era non solamente un groviglio di intrecci e di dinamiche personali, politiche, giuridiche e di ragion di Stato – tra dinamismo e prudenza – insieme ad una evidente componente di italianità, ma anche una nostalgia – mai sopita – per i suoi impulsi anarchici giovanili. Mentre, nel tempo, sul caso andava calando il silenzio.