Pilato tra storia e memoria

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Il problema per ricostruire storicamente la figura di questo personaggio è il fatto che i testi che ne trasmettono la testimonianza più ampia e particolareggiata sono i Vangeli

di Antonio Calicchio

Come considerare i Vangeli per ricostruire storicamente e, quindi, scientificamente, la figura di Pilato? Secondo alcuni, essi “non sono libri di storia, né vogliono esserlo”, ma vanno considerati come “i grandi laboratori del ricordo religioso cristiano” (Schiavone) e, dunque, come testi che sono l’elaborazione scritta di una memoria. Quali testi dell’antica memoria cristiana, i Vangeli, malgrado non siano libri di storia, tuttavia custodiscono il ricordo di eventi che l’oralità dei racconti ha tramandato finché la necessità – già congiunta a ragioni di “ortodossia” – imposta dalle diverse ed allora nascenti comunità cristiane, ha fatto in modo che detta memoria venisse messa per iscritto.

Vero è che in merito a questi temi esiste una sterminata bibliografia, ma è altrettanto vero che il cuore del problema resta la natura intrinseca di tali scritti che, secondo altri autori, vanno considerati più che come testi della memoria cristiana, piuttosto come opere teologiche di spessore culturale e di pensiero (Pasolini). In modo che questi testi possano essere letti alla stregua di un dialogo platonico o di una pagina aristotelica. I Vangeli appaiono come testi composti “a tavolino”: dietro ogni azione, parola, atteggiamento di Cristo può rinvenirsi una molteplicità di riferimenti e di rimandi scritturistici puntuali; la qual cosa mostra come gli autori dei Vangeli dovessero essere persone colte e fini conoscitori della Scrittura. I Vangeli non narrano necessariamente di accadimenti realmente avvenuti, ma sono il racconto di “accadimenti teologici” il cui senso è finalizzato a legittimare la messianicità di Cristo: e cioè, si tratta di scritti teologici in quanto cherigmatici. E’ chiaro che considerare i Vangeli come testi storici nel significato moderno non ha senso dal momento che i criteri di neutralità, di oggettività o la minuziosa disamina delle fonti non sono i fini principali cui questi autori tendono. Tuttavia, da una certa prospettiva, neppure può escludersi che i Vangeli siano, a loro modo, anche testi storici. Ed infatti, non vanno trascurate né la citazione di personaggi storici, né la volontà di offrire una affidabile narrazione storica.

Ma l’investigazione deve fondarsi sull’analisi di tutte le fonti, anche epigrafiche, su Pilato, oltre che sui Vangeli: in particolare, si pensi a Filone di Alessandria – che dipinge Pilato come governatore violento e sanguinario – e Giuseppe Flavio che trasmette alcuni episodi dell’attività di Pilato in Giudea in cui lo scontro con la tradizione teocratica giudaica era inevitabile. L’arresto di Cristo fu dovuto all’iniziativa giudaica, ma i Giudei, farisei o sadducei che fossero, non avevano il potere di arrestare o condannare a morte un uomo in mancanza del beneplacito romano. Quantunque i Vangeli non lo riportino chiaramente, è pensabile che l’arresto sia derivato da una azione comune dei Giudei con un manipolo di soldati romani. Comunque, non par dubbio che pure i Romani abbiano agito; il lungo ed enigmatico dialogo (si badi, non un processo in termini giuridici che non avvenne mai) fra il condannato a morte ed il governatore dischiude dell’altro. Si assiste alla rappresentazione non di un arido funzionario che si lava le mani di questa fastidiosa vicenda (scena celebre che, però, secondo alcuni storici, non accadde), ma di un uomo che, consapevole di avere il potere di vita o di morte sul condannato, da un lato, non comprende i motivi della sua riprovazione da parte dei Giudei, d’altro lato, è incuriosito, attratto da questo personaggio di poche, ma efficaci e taglienti parole.

L’esito della storia è noto: Pilato, alla fine, cederà alle richieste dei capi dei sacerdoti per non generare l’ennesima rivolta e, pur non credendoci, tuttavia accetterà che Cristo si è fatto re, come recita il titulus crucis, contravvenendo, così, al potere di Roma. Eppure, il Nazareno aveva coerentemente affermato che il suo regno non era di questo mondo. Dal resoconto pervenutoci emergerebbe un Pilato, nel profondo, non collaborazionista coi Giudei, ma (quasi) “sedotto” dalla enigmatica personalità che gli sta dinanzi. Per questo, Tertulliano asseriva che, nel suo intimo, Pilato era divenuto cristiano (Apologeticum: et ipse [Pilatus] iam pro sua conscientia Christianus); e, quasi a giustificazione della sua condotta, il governatore scrisse una missiva a Tiberio, la cui versione apocrifa si legge nel Ciclo di Pilato. Tertulliano di Pilato, dunque, conosceva – forse – più cose di quante ne sappiamo noi. Ciò non può essere escluso, ma neanche può tralasciarsi che l’Apologeticum è – appunto – uno scritto apologetico; pertanto, Tertulliano aveva tutto l’interesse di sostenere che, persino, il governatore romano era, in fondo, un cristiano.

Nelle fonti (antiche e non), quindi, Pilato si rivela una personalità oscura in quanto viene letteralmente “usato”: o in funzione antigiudaica (ed allora, la responsabilità della condanna di Cristo è da ricondurre ai Giudei) o in direzione antiromana (e, dunque, sono stati i Romani a volere la morte di Gesù).

Comunque, non è agevole districarsi fra questi meandri che spesso gli studiosi romanisti tralasciano di considerare, talvolta per sole ragioni di ordine ideologico.