LE MORTI SILENZIOSE NELLA RSA GONZAGA

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A LADISPOLI CI SI INTERROGA SU COME IL VIRUS SIA POTUTO ENTRARE NELLA CASA DI CURA. MENTRE DAVANTI ALLA STRUTTURA CODE CHILOMETRICHE PER IL TAMPONE.

Vengono definite a volte le morti “silenziose”. E in effetti non se ne è sentito parlare molto. Nemmeno nelle comunicazioni ufficiali che l’Asl rilascia ogni giorno ai Comuni e ai cittadini. Eppure lo scorso fine settimana il bollettino è stato nerissimo per la Rsa Gonzaga di Ladispoli che ha contato sei vittime, di cui cinque sopraggiunte con il Covid. Insomma, anziani che erano ricoverati prima nella casa di cura e poi sono stati trasportati in vari ospedali di Roma e sono deceduti in seguito al virus, pur con patologie pregresse.

Sconcertano alcuni aspetti di questa storia simile anche in altre realtà italiane. Intanto che è da marzo scorso, quindi dal periodo del durissimo lockdown, che i rispettivi parenti – per ragioni di sicurezza – non hanno potuto incontrare i loro cari, degnandoli di un abbraccio, una carezza, nulla di tutto ciò. E che quindi per forza di cose le infezioni siano partite e quindi trasmesse, si presume, per via di qualche membro interno al personale che però conduce la sia vita normale, dopo il lavoro, fuori dalla Rsa. E poi lascia davvero di stucco quando raccontato dal direttore amministrativo del Gonzaga, Angelo Monaldi, molto sincero nell’affermare come sia «molto complicato riuscire a reperire notizie. Sembra incredibile ma è così». In poche parole. Le ambulanze del 118 vengono per prendere i pazienti, li portano negli ospedali e poi il buio. Forse i familiari riescono a mettersi in contatto scomodando mari e monti per poter parlare con un medico, un infermiere, qualcuno che sia disposto a fornire continue informazioni sullo stato di salute.

Tornando a chi non c’è più, almeno nel bollettino di sabato 31 ottobre, si sono spenti tre ladispolani, si tratta di due donne rispettivamente di 85 e 89 anni e un uomo di 85. In questo elenco tragico una donna cerveterana 94enne ma anche un uomo e una donna originaria di Fiumicino. Sono deceduti nel silenzio in questi giorni nelle rispettive stanze della terapia intensiva al Gemelli, al Sant’Eugenio e al San Filippo. Non ne erano al corrente né Asl, né il sindaco, Alessandro Grando. Neanche quindi la popolazione. Non si sa di preciso quando il maledetto virus sia entrato nella Rsa che si trova sulla via Aurelia di fronte alla Casa della salute. Forse intorno al 10 settembre, giorno in cui l’Asl di Rm 4 ha allertato lo stessa Rsa confermando che una degente fosse positiva dopo essere stata ricoverata al Policlinico Gemelli. Da lì è stato un crescendo che ha portato i vertici della struttura a stabilire varie misure di sicurezza e il dipartimento di Prevenzione dell’azienda sanitaria ad eseguire i tamponi a tutti, dipendenti compresi. Test che si sono ripetuti quasi quotidianamente. La curva è salita in modo esponenziale fino all’ultimo bollettino che ha determinato una “zona rossa” all’interno del San Luigi Gonzaga. «Gli ospiti non sono stati mai fatti uscire da marzo scorso – ha ribadito più volte il direttore amministrativo Monaldi – e i rispettivi familiari non hanno mai avuto contatti con loro. Qui entravano solo i dipendenti naturalmente e qualche medico di base. Non è il caso di colpevolizzare qualcuno, specie in questo momento.

Tra Ladispoli e Cerveteri ci sono oltre 400 contagiati. Ora dobbiamo tenere duro sperando che la curva torni a decrescere. L’umore dei nostri degenti ci preoccupa ma i nostri terapisti cercano di scambiare con loro quattro chiacchiere visto che non possono neanche uscire fuori per una passeggiata». La speranza è che Covid o non Covid la situazione davvero torni alla normalità per gli ospiti delle Rsa. In un momento in cui Ladispoli anche possa scendere a livello numerico dei positivi tracciati con un massiccio numero di tamponi, soprattutto al drive-in. Un servizio, questo, attivato diverse settimane fa dall’Azienda sanitaria e che spesso ha fatto registrare caos sul fronte della viabilità.

I primi giorni sulla via Aurelia, poi ad inizio di questa settimana analogo scenario. In fila sei ore anche più per sottoporsi ad un tampone. Praticamente il tempo che ci vuole da Roma per arrivare a Vibo Valentia attraversando la Salerno-Reggio Calabria. Automobilisti incolonnati per mezza giornata. Un incubo. Che ha deciso di racconta un malcapitato. «Sono stato oltre 6 ore in fila e necessariamente mi sono dovuto recare al Centro della Salute. Ho visto bimbi piangere in auto perché per tutto quel tempo non potevano scendere, o andare al bagno. Non ci sono servizi igienici, nulla. Stai fermo lì e stop, attendi il tuo turno. Io ero solo, ma chi ha una famiglia e dei piccoli la situazione è problematica». Non tutti si recano al drive in solo per rassicurarsi. Molti devono necessariamente per rientrare in ufficio o perché i loro figli altrimenti non potrebbero tornare a scuola. Il servizio attivato settimane fa dall’Asl di Rm 4 è su prenotazione da mercoledì e si spera che la situazione migliori. In coda anche tanti romani e residenti da altri comuni, come Fiumicino. Ecco forse spiegato uno dei motivi dell’effetto tappo.