Paolo Giordano, scrittore sui generis

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Pubblico delle grandi occasioni a Ladispoli per la presentazione del libro “Divorare il cielo” dell’autore dell’acclamato romanzo “La solitudine dei numeri primi”di Giovanni Zucconi

Un romanzo è sempre un po’ un’opera quasi divina. Lo scrittore crea in esso dei mondi che non esistevano prima, e vi fa nascere, crescere e morire dei personaggi mai vissuti fino a quel momento. Succede anche in altre arti, ma nella letteratura questo appare più evidente, perché l’opera di “creazione” è immediatamente riconoscibile da parte del lettore, e può assumere dimensioni anche grandiose. Per questo l’incontro con uno scrittore è sempre un evento importante per la comunità dei lettori. Finalmente puoi conoscere personalmente il “demiurgo” di tante storie che hai amato, che ti hanno commosso o fatto pensare. Hai la possibilità di parlare e fare domande a chi conosce, come un padre o una madre, il personaggio nel quale ti sei identificato, e che ti ha, magari, cambiato la vita. Per questo non ringrazieremo mai abbastanza la libreria “Scritti & Manoscritti” di Ladispoli per le sue lodevoli iniziative di incontro con gli scrittori italiani più importanti. La scorsa settimana è stata la volta di uno scrittore sui generis. Un giovane e brillante fisico delle particelle, con il dono “divino” di creare best-seller da un milione e mezzo di copie: Paolo Giordano. Il grande pubblico lo conosce soprattutto per il suo romanzo più famoso, “La solitudine dei numeri primi”, ma ha al suo attivo altri tre romanzi, compreso l’ultimo, “Divorare il cielo”, che ci ha presentato, a Ladispoli, in un incontro affollato e molto partecipato. Non ho ancora letto “Divorare il cielo” e quindi non posso fare una recensione onesta. Mi posso limitare a dire che le recensioni che ho letto sono tutte molto positive, e quindi non posso che consigliare di leggerlo. Dico anche che l’incontro con Paolo Giordano è stato per me memorabile, più di altri che ho avuto con diversi scrittori importanti. Questo perché si è parlato in modo esaustivo del suo ultimo romanzo, ma, soprattutto, dall’intervista è emerso, in modo chiarissimo, il “mestiere dello scrittore” secondo Paolo Giordano. Volete sapere come prende forma e si sviluppa un romanzo di successo? Volete sapere come vive un grande scrittore mentre sta partorendo il suo romanzo? Troverete tutto questo nell’intervista che segue.

Secondo lei che ruolo hanno i libri nella vita di un lettore?

“I libri ti possono cambiare la vita. “Divorare il cielo” è una specie di tributo a tutto questo, e alla mia vita come lettore. E’ veramente una vita, con le sue varie fasi. Le fasi infantili, dove leggi certi tipi di storie e ci precipiti dentro con quell’abbandono tipico infantile. E poi una fase dove fa la comparsa l’intellettualismo, e hai la pretesa di leggere tutto quello che bisogna leggere. Poi ci sono le fasi in cui ti stacchi dai libri, perché questi non riescono a più a parlarti. Succede perché non trovi l’autore che riesce a dialogare con la tua vita in quel momento. E poi, quando lo incontri, è come se ti si aprissero, all’improvviso, gli occhi su qualcosa che non avevi considerato prima. Come se quel libro ti facesse conoscere una verità nuova. Può succedere soprattutto quando sei adolescente. A me è successo con un libro di Schopenhauer, a 17 anni. Dopo averlo letto ho smesso di frequentare la parrocchia, perché questo libro mi aveva svelato la crudeltà del mondo e la non esistenza di Dio.”

Uno scrittore legge i libri come lo leggerebbe un lettore qualsiasi? Oppure, essendo un tecnico, lo legge in modo diverso?

“Secondo me, come per tutte le passioni forti della vita che poi diventano un lavoro, il mestiere si mangia, purtroppo, una parte della passione pura. Però qualcosa si guadagna. Si legge molto di più, e per questo si diventa un lettore migliore. E si apprezzano di più i libri. Se uno si abitua a mangiare meglio, è chiaro che poi diventa più esigente. Magari perde quel gusto un po’ selvaggio, ma impara a distinguere molte più cose, e quindi ad assaporare meglio. Per questo credo che si possa continuare a scrivere, e diventare dei lettori sempre più appassionati. E’ chiaro però che nella lettura bisogna sempre continuare a coltivare quella parte infantile che c’è dentro di noi.”

Lei non crede che scrivere un libro sia anche un po’ un atto di superbia? Lei, da scrittore, non si sente una specie di divinità che crea mondi che non esistevano prima e fa nascere, crescere e morire personaggi mai vissuti?

“Diciamo che sono molto più preoccupato di chi si sente un Dio e fa altre cose. Noi scrittori non posiamo nuocere.  C’è sicuramente una fortissima affermazione dell’Ego nello scrivere un romanzo, ma che per me non sta nella consapevolezza di avere dei destini in mano, ma nel fatto di impegnarsi a scrivere una storia, e avere la presunzione che qualcuno poi dedicherà tutto il tempo necessario a leggerla. Riguardo ai personaggi, il narratore come un Dio è qualcosa che non c’è più. Ma non è finito oggi, ma all’inizio del ‘900, quando sono arrivati i vari Joyce e Virginia Woolf. Quando il narratore ha completamente perso la presunzione di essere Dio, e di raccontare tutto in modo oggettivo. Quando ha capito che il massimo che poteva fare, era quello di raccontare il suo punto di vista su una determinata storia. Da quel momento lo scrittore si è enormemente depotenziato. E oggi siamo tutti degli scrittori enormemente depotenziati. E l’atteggiamento che io ho avuto nello scrivere “Divorare il cielo”, è molto diverso da quello di esercitare un potere sui personaggi. Dall’inizio mi sono imposto di stare completamente dietro ai personaggi. Cioè di aspettarli. Questa è la cosa più difficile da fare. Perché la tentazione che ogni scrittore ha, è quella di dire “adesso immagino come va avanti”, e quindi decido il destino di questi personaggi a breve termine. In quel momento stai veramente facendo il Dio. Io mi sono imposto di non fare questo. Perché io credo che le persone, nel mondo reale, non le conosciamo mai veramente. Le persone, nel momento in cui reagiscono a delle situazioni, si svelano sempre in un modo più sorprendente di come ce le immaginavamo. Allora, se uno parte da questa assunzione per la vita reale, poi la deve necessariamente trasferire nella scrittura.”

Quindi lei come procede quando deve definire una storia o un personaggio?

“Bisogna procedere completamente al buio per lunghe parti, e aspettare. A volte fermandoti. Cosa che mi è successa in continuazione con questo libro. Fermarti e aspettare che ti colga una visione sorprendente su uno dei personaggi. Allora in quel momento tu sai che non sei stato tu ad agire al posto dei personaggi, ma è stato il personaggio che, in una qualche forma del tuo inconscio o di qualcosa che tu non controlli, si è ispirato a te. E’ molto difficile procedere in questo modo, ma sicuramente è un modo di scrivere molto bello. Ed è anche molto più appagante. Perché se riesci ad essere sorpreso da ciò che i tuoi personaggi stanno facendo, allora hai molte più chance di stare dicendo qualcosa di sorprendente e inaspettato anche per i lettori.”

Lei ha detto che quando scrive i suoi romanzi, i personaggi hanno una loro vita propria, che lei lascia che affiori. Come passa questo tempo, che può essere anche molto lungo? Quale è il “nido” che fornisce a questi personaggi durante la gestazione del romanzo?

“Quello che chiama “nido” è per me una vera ossessione. Il nido è lasciarsi completamente ossessionare fino al punto in cui la permanenza dentro la storia, insieme ai personaggi, a tratti, diventa per me più concreta e più importante di quella reale. Questo è un processo che detto così suona semplicemente romantico, ma in realtà è un processo estremamente violento, perché ti chiede il sacrificio di tagliare fuori parti della tua vita per periodi anche lunghi. Ti chiede di tagliare fuori soprattutto le persone, anche quelle più importanti per te. E questo è uno dei motivi per cui, per tutta la scrittura di “Divorare il cielo”, ho dovuto isolarmi fisicamente da tutti. Perché mentre scrivo sono una persona insopportabile. Sono una persona che sostanzialmente non c’è per nessuno, perché tutte le mie energie emotive sono rivolte a qualcosa di invisibile. Magari con l’esperienza imparerò a fare questo in modo diverso. Ma a me, oggi, sembra quasi impossibile.”

Lei hai scritto un libro da un milione e mezzo di copie, tradotto in almeno 20 lingue. In questo primo romanzo immagino che lei ci abbia messo dentro tutta la sua “arte”, senza condizionamenti “editoriali”. Dopo il suo grande successo, ha cambiato il tuo modo di scrivere? Ha scritto anche per ripetere il successo di vendita, magari ammiccando un po’ al pubblico per piacere di più?

“I miei libri hanno dei nuclei molto simili, anche se poi sono molto diversi. Ma cosa scrivere non è una cosa che scegli fino in fondo. Anzi, credo che la si sceglie molto poco. Devi semplicemente capire quale è il libro che puoi scrivere in quel momento. E poi lo scrivi. Non ti è dato troppo di decidere. E tutto il resto, vendere più o meno copie, ha in realtà un’importanza relativa, ed è totalmente fuori dal tuo controllo. Quindi è molto più sano non preoccuparsene affatto. E’ una preoccupazione più degli editori e dei librai.”

Le è mai capitato di non sapere come iniziare un romanzo o come andare avanti nella sua scrittura?

“Questa è una questione molto seria, con la quale ogni scrittore si misura ogni giorno. Ogni romanzo, quando lo hai finito, è veramente è un po’ una piccola morte. Dopo, ogni volta, ricadi sempre negli stessi dubbi. Il dubbio più grande è: “riuscirò a rifarlo di nuovo?” Per fortuna, ad un certo punto diventa una questione razionale. Sai che se sei riuscito a farlo, ci riuscirai di nuovo. A meno che la tua vita non sia troppo a pezzi da non permettertelo.”

Si spieghi meglio

“Una delle cose più complesse dello scrivere è che, secondo me, richiede che la tua vita sia, in qualche modo, non dico in ordine, ma che non ti assilli troppo. Altrimenti, per me, non c’è la possibilità di entrare in quella concentrazione, in quell’assoluto.”

Ma anche in queste condizioni ci si può bloccare davanti ad una storia

“Si, ma poi ti inventi mille modi. Iniziare un libro non è mai facile. Non è mai buona la prima, non è mai buona la seconda, e nemmeno la decima. Diventa anche un po’ una questione di fede. Devi avere fede nel fatto che il libro è lì, e che arriverà ad un certo punto, anche se non sai quando. Quindi si tratta spesso di girare a vuoto per mezze giornate, camminando moltissimo, dormendo, e leggendo molto.  Leggere è qualcosa che ti mette dentro la scrittura. Non c’è viatico migliore della lettura per entrare nella scrittura. E poi, ad un certo punto, per sfinimento, scrivi. I miei orari più prolifici sono dopo le 18 o le 19. Questo vuole dire che per il resto della giornata sei stato un pazzo e basta. Un’altra delle cose molto difficile, ma che dovremmo sempre fare, è permettere alla scrittura di sgorgare non completamente dalla testa. Dovrebbe essere un esercizio un po’ più irrazionale e inconscio. Per permettere a questo inconscio di venire fuori, devi qualche volta escogitare delle tecniche. Ad esempio questo libro, per la prima volta, l’ho scritto tutto a mano. E’ stato un modo per trovare una scrittura diversa. Una scrittura che potevo controllare meno, e per questo più disordinata e più tumultuosa.”

Ha mai abortito un romanzo che aveva già iniziato a scrivere?

“Purtroppo si. Più volte. Per me c’è un punto di rottura, che di solito arriva alle 80 cartelle, in cui sai se il romanzo è da buttare o è buono. Non so perché proprio 80 cartelle. E’ una specie di numero magico. Le storie lunghe che mi è capitato di buttare via, le ho buttate tutte dopo 80 pagine. Tu lo sai che è da buttare, non è che ci devi pensare. Il problema è che lo sai già prima, come quando devi lasciare una fidanzata. Lo sai, ma poi non lo fai. E vai avanti fino a pagina 80. Però dentro di te lo sapevi già da pagina 30 che era da buttare.”