IL LATINO “SERVE” DAVVERO O E’ UNA “LINGUA MORTA”?

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L’idioma della Roma antica vive ancora nelle nostre parole e rivivrà anche nella scuola italiana. 

ANTONIO CALICCHIO

Si apprende che i nuovi programmi scolastici prevederanno la reintroduzione del latino nella scuola media inferiore o scuola secondaria di primo grado: trattasi di notizia da accogliere con favore e fervore, dal momento che dirime una dibattuta questione, quella relativa alla “utilità” o meno di siffatta lingua.

Si pensa, invero, che – paradossalmente – finalità suprema dello studio del latino sia non tanto, e non soltanto, quella di imparare una lingua (ancor meno di impararla alla medesima stregua di una lingua straniera parlata nella contemporaneità), quanto piuttosto quella di rafforzare e di accrescere le capacità di produzione scritta e parlata in italiano, nella direzione della maggior chiarezza possibile. Ciò appare tanto più indispensabile nella nostra epoca, in cui la produzione scritta e orale ha sovente l’obiettivo bensì di comunicare, ma anche, e principalmente, di persuadere. Il latino, quindi, risulta certamente utile agli effetti di una conoscenza più elevata dell’italiano, nonché delle altre lingue neo-latine.

Mio padre – che è stato il mio primo Maestro di questa disciplina, e non solo – nella sua ben nota rigorosa formazione intellettuale intrisa di brillante cultura classica e intessuta di raffinata dottrina umanistica, qual è molto rara da riscontrare pur nel nostro Paese ferace di genialità, mi soleva dire continuamente, allorquando ero studente, che “il latino è utile, in quanto forma la mente, cioè aiuta a strutturare la capacità logica del pensiero e del linguaggio”. Il latino, infatti, è, par excellence, una lingua estremamente logica e precisa nelle sue strutture profonde, sotto il profilo tanto sintattico (la qual cosa è resa necessaria dalla mancanza di articoli determinativi e indeterminativi, oltreché dal conseguente utilizzo delle declinazioni), quanto lessicale e, dunque, di pensiero.

Talché, l’analisi logica e del periodo, che rappresentano il fondamento dell’insegnamento di questa materia e l’autentica ragione per cui la si studia, consentono anzitutto di evidenziare la struttura sintattica cartesianamente coerente e lineare del latino. Ad es., in questa lingua la più parte dei verbi semplici costruiscono ciascuno, in unione con le varie proposizioni, dieci-quindici verbi composti dagli svariati significati; i quali significati sono tutti immediatamente desumibili, con mero ragionamento e senza dizionario, allorché sia noto il significato del verbo base e delle preposizioni, che sono poche e sempre le stesse. Il latino, al pari del greco antico, è una lingua che, in linea generale, non implica memoria, ma la cui comprensione affonda le sue radici primariamente sulla capacità di effettuare collegamenti e di ragionare sulle parole.   

Del resto, occorre sottolineare, al riguardo, che è stato sperimentalmente provato come le capacità di eseguire calcoli matematici si siano rivelate strettamente dipendenti da quelle di articolare logicamente il discorso. Orbene, alla luce di una consimile dimostrazione scientifica, ci si domanda se sia possibile qualificare il latino, proprio in forza delle strutture di fondo preminentemente logiche che lo caratterizzano, un “esercizio”, che potrebbe concorrere, in maniera significativa, al consolidamento dell’educazione, della formazione e della maturazione delle capacità critiche e dell’autonomia di giudizio, anche in considerazione dell’antico monito illustrato da Seneca, in Epistole a Lucilio: “Non scholae, sed vitae discimus”.

Il latino è stato, in Europa, quivi, adoperato dalla scienza e dalla comunicazione internazionale fra scienziati, sino al sec. XVIII. In latino sono state redatte opere essenziali della cultura europea e ne sono state tramandate altre notevoli di letteratura, di filosofia e di scienza greca. Il latino è tuttora la lingua ufficiale della comunicazione internazionale nell’ambito delle scienze dell’antichità; essa è la lingua della Chiesa cattolica e della scienza giuridica, essendo l’assetto portante dei nostri ordinamenti e dei nostri codici basato sul Diritto romano. Il latino può essere senz’altro valutato utile, nel contesto scolastico europeo, così da poter recuperare, in una prospettiva storicistica, i segmenti di ispirazione culturale comuni dei differenti Paesi europei, costituiti dalla civiltà greco-romana-cristiana, acciocché l’Europa non sia unicamente un edificio politico-economico, privo di una identità culturale condivisa.

E quante volte riusciamo ad esporre un concetto con una sola battuta proprio in virtù di un adagio latino o di una massima del pensiero greco? Greci e Romani sono i nostri progenitori, la cui saggezza si sostanzia nella nostra saggezza, quantunque si mostrino quasi irreali, colti in una dimensione mitologica o fiabesca! Comunque, vero è che non è agevole accostare un tempo assai lontano, tanto da sembrare frutto della fantasia speculativa; ma è parimenti innegabile che, nell’incontrare talune pagine o solamente talune espressioni, la distanza temporale viene vinta da un contatto, cioè le parole, che, da secoli innumerevoli, toccano d’improvviso punti comuni e discoprono un pensiero, che è una forma di Noi. Al presente si deve sempre la prima attenzione, essendo il tratto di fiume in cui, scorrendo, viviamo e che va guardato per ciò che è, ossia eraclitianamente unico e irripetibile in ciascuna goccia. Però, allo scopo di comprenderlo, giova talora discendere anche in quel Noi, risalire il corso, in vista di capire cosa continuiamo ad essere e cosa di diverso, invece, siamo. Il pensiero, le parole e le azioni di quei nostri antenati possono alimentare o fugare un dubbio, lumeggiare od ombreggiare un frammento di realtà, con idee, esperienze ed emozioni enunciate da un medico, un giureconsulto, un poeta o un filosofo vissuto decine di generazioni passate. Esistono frasi, nozioni, risposte e spesso interrogativi che sopravvivono a causa di una essenza radicale, passano indenni al tempo, dato che sembrano scavalcarlo, seguitano a parlare a coloro che hanno modo di ascoltare, aiutando a trasformare e a capire chi siamo.

Aristotele affermò che “gli studi liberali non servono a nulla, ma sono gli unici degni di un uomo libero”. Gli studi liberali, ove giudicati quale cultura fine a se stessa, possono anche non servire, soprattutto odiernamente, in cui “serve” esclusivamente ciò che genera vantaggio economico. Forse gli studi liberali – e fra essi lo studio della cultura greco-romana – non sono neanche i soli degni di un uomo libero; nondimeno, sono studi capaci, a parer mio, di coinvolgere totalmente, di arricchire l’esistenza e il tempo libero. E qual è l’età migliore onde dedicarsi ad essi, se non quella dell’adolescenza, di cui sono noti i bisogni e le capacità di un coinvolgimento emotivo alto e positivo? Tenuto conto, inoltre, che, non di rado, proprio il periodo scolastico rappresenta, per numerose persone, l’unica occasione, nella vita, di dedicarsi all’otium (in latino), alla scholé (in greco), di occuparsi a tempo pieno di studi sì “inutili”, ma appassionanti. Si sa, infatti, conformemente alla saggezza dell’Ecclesiaste, che ogni cosa ha il suo tempo e che vi è un tempo per ogni cosa!

Russell scriveva in Elogio dell’ozio che “in passato vi era una vasta classe di lavoratori ed una piccola classe di persone oziose … Fu quest’ultima che coltivò le arti e scoprì le scienze, che scrisse libri, inventò sistemi filosofici e raffinò i rapporti sociali. Persino la campagna per la liberazione degli oppressi partì generalmente dall’alto. Senza una classe oziosa, l’umanità non si sarebbe mai sollevata dalla barbarie”.   

Ed allora: davvero il latino è una c.d. lingua morta? Nel Convivio, Dante sostiene che “lo latino è perpetuo e non corruttibile”, tant’è vero che molteplici nostri vocaboli pervengono e provengono dall’antica Roma; e se non ce ne avvediamo è perché l’evoluzione dell’italiano è sempre rimasta in contiguità del latino, molto più di quanto accaduto per altre lingue, dal rumeno allo spagnolo. Nell’attuale vocabolario esistono 4.500 termini circa derivanti direttamente dal latino – che tecnicamente sono denominate “parole ereditarie” – mentre sono più di 30 mila quelli che sono stati recuperati mediante la letteratura – in questo caso si parla di “latinismi” – , e la differenza consiste in ciò: il sostantivo “albero” è una parola ereditaria, poiché è l’esito di un graduale sviluppo del latino arbor; l’aggettivo “arboreo”, viceversa, è un latinismo, introdotto in un periodo successivo e riconoscibile dalla corrispondenza con l’originale arboreus. Ad es., la differenza tra “donna” e “moglie” implica che, in origine, con domina si indica la “padrona”, ovverosia una figura femminile di rango superiore. La “donna” era la mulier, che, però, ha circoscritto il suo significato sino a designare la condizione matrimoniale. Pure nella lingua italiana le parole vanno dove vogliono, nell’orizzonte di una più estesa genericità o di una definizione particolare. Si verificano, indi, le conversioni da una lingua all’altra, come conferma il destino di “atomo”, che in greco fa riferimento alla porzione di materia indivisibile e in latino può anche identificare un breve intervallo di tempo: un istante, appunto, quale quello che separa il latino dall’italiano.

La nostra civiltà, quella c.d. occidentale, riposa, pertanto, su un sapere che è un retaggio greco – romano – cristiano, vale a dire ciò che di più rilevante vi sia sotto l’aspetto “scientifico” e che aggrega, da secoli innumeri, in una trama unica di teorie, di idee, di concetti, di pratiche, di immagini, di similitudini gli abitatori delle zone occidentali del pianeta, dando luogo così al più intangibile e insieme eloquente e universale vincolo tra le menti, malgrado ogni differenza di tempo e di spazio: è la cultura mediterranea, nata e germogliata sulle sponde dell’omonimo mare, che ha trovato la sua formulazione riflessa in quelle due lingue, il latino e il greco, capolavori dell’ingegno umano.