Ceri, c’eri!

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Discesa di Ceri

Storia di banale degrado di un borgo antico

di Angelo Alfani

Non vi hà certamente nell’Agro Romano, o negli ultimi confini della Toscana verso Roma, luogo più memorabile, né più fecondo di antiche erudizioni, eziandio Ecclesiastiche, quanto quello di Ceri, scrive, alla fine del seicento, Bartolomeo Piazza nel “La gerarchia Cardinalizia”.  Che prosegue: Non solamente perché, ella fu anticamente Città, da alcuni ancora posta tra le Vescovali, ma perché diede il nome a quelle funzioni, e ministeri, che servono per risvegliare sensibilmente la venerazione degli huomini, verso le cose della religione, ed i sacri Misteri, dette Cerimonie”.

Interessante è quanto dissertò, nell’adunata tenuta nell’ aprile del 1834, il socio ordinario dell’’Accademia pontificia di archeologia, abate Antonio Coppi, sulle illustrazioni storiche dei luoghi anticamente popolati nell’ Agro Romano. Dopo averne illustrata la storia più lontana proseguì: Ceri fu poscia eretta in ducato, e passò ai Cesi. Da una visita alla Diocesi di Porto sappiamo che apparteneva a quella famiglia nel 1636; ed in tale anno gli abitanti non erano che circa 120. Da altre due visite risulta che nel 1660 erano duecento, e nel 1667 erano cresciuti a 250. Ceri passò poi alla famiglia Borromea e da questa negli Odescalchi, i quali la comprarono nel 1678 pel prezzo di 437,000 scudi (istrumento per gli Atti di Malvezzi e Palazzi del 15 marzo). Nel 1833 gli Odescalchi la vendettero a don Alessandro Torlonia, per scudi 230,000 (Istrumento del 23 luglio.). Nel 1815 trovai in Ceri circa 100 individui. Il territorio odierno comprende i quarti denominati: Monterone di rubbia 257; Carlotta di rubbia 392; Selva della rocca di rubbia 189. Probabilmente l’antico territorio cerense era molto esteso fuori dello odierno agro romano”.

Sempre l’abate Coppi, in una relazione del dicembre del 1846 sulla situazione agraria dell’Agro Romano, sviluppò l’idea di una Tenuta Modella, e citando Cervetri e Ceri scrive: “Deliziosa è la situazione dell’antica Cere sul pendio di una collina dalla quale si gode un vasto orizzonte e la vista del mare. Ma per lo stabilimento di una popolazione agricola è migliore il luogo di Ceri odierna sopra una collina di già riparata in parte dai venti australi dalla natura istessa e che si potrebbe difendere maggiormente con piantagioni di alberi”.

Il feudo di don Alessandro Torlonia, comparato si tramanda “a cancelli chiusi” comprendendo tutto immobili, animali ed, dicono i maligni, gli umani, conta oggi una ottantina di persone in pianta stabile e frotte di affamati turisti che sbanchettano nelle trattorie nelle feste comandate.

I focolai di “malaria” che insorgono, con troppa frequenza, sulle un tempo intatte collinette attorno a questo gioiello, la volgarità dei cartelli pubblicitari privati e pubblici, quanto avvenuto al Pincetto, un piccolo Eden nel Paradiso fino a pochi anni orsono; lo sterminio di un centinaio di centenari pini marittimi lungo la strada che porta alla insorgenza tufacea,che , per ragioni di pura stupidità umana, non saranno mai più reimpiantati; certamente sono di irreversibile nocumento più di una inesistente fogna .

Stiamo parlando di Ceri e non di Valcanneto o Cerenova o fusaja varia: uno scrigno che appartiene a tutti e non a pochi intimi, che dovrebbe esserci più preziosa della pupilla.

Mi si conceda un ricordo personale. Nel 1974 venne ospite a casa mia un giovane militante rivoluzionario cileno, che evitò la mattanza dei militari rifugiandosi nella Ambasciata italiana a Santiago. Durante i mesi che trascorse in nostro compagnia, un incontro casuale con un inserviente della Ambasciata, affatto solidale coi disperati, lo rattristò profondamente. Insieme ad altri amici decidemmo di andare assieme a cena a Ceri.

Ogni volta che incontro il compagno Manuel mi rammenta quella magica serata con quella luna gonfia e rassicurante. Questa è Ceri.