Umbria Antica. Storia e genetica di un popolo dimenticato di Pierluigi Bonifazi

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Un libro in controtendenza che mette in discussione la ricostruzione storiografica prevalente sull’origine degli abitanti dell’Italia centrale e orientale e dei romani stessi, sulla religione pagana. L’analisi si avvale del contributo della storia sociale, della linguistica e dell’archeogenetica.

di Andrea Macciò

 Nella storiografia tradizionale, la storia dell’antica Umbria, un territorio molto più vasto di quello attuale, e dei popoli che la abitarono (nei programmi scolastici definiti in genere come “italici”) è liquidata in poche pagine, strettamente legata alle vicende di Roma e alla resistenza che i popoli dell’Italia centrale come etruschi, sabini, piceni e sanniti opposero prima di essere assorbiti nell’Impero, prima pagano e successivamente cristiano.

È opinione diffusa tra i non addetti ai lavori che città come Interamna Nahars (Terni) Narnia (Narni) e Carsulae siano state fondate dai romani stessi sulle ceneri di insediamenti autoctoni assimilabili a villaggi.

La narrazione legata alla fondazione di Roma attribuisce ai popoli latini un’origine greca, in quanto discendenti del troiano Enea approdato sulle coste laziali dalla città ellenica.

La genetica e la cultura delle popolazioni dell’Italia centrale sarebbero quindi di origine greco-romana, risultato dell’ibridazione tra le popolazioni di origine ellenica e gli autoctoni “italici”.

Con la cristianizzazione dell’Impero Romano e delle popolazioni che lo abitavano, l’Italia è assimilata nella visione corrente a una cultura romana e giudaico-cristiana.

Come sappiamo, la storia la scrivono i vincitori, e la narrazione attuale è ancora intrisa dello storicismo progressivo degli storici romani e dei Padri della Chiesa che hanno raccontato le vicende storiche dell’Italia Centrale come una progressiva civilizzazione di popolazioni “barbariche” e il passaggio dal paganesimo al cristianesimo come un’evoluzione naturale della storia verso la verità.

Con Umbria Antica, Pierluigi Bonifazi si propone di mettere in discussione la ricostruzione storiografica prevalente sull’Umbria antica, sull’origine degli abitanti dell’Italia centrale e orientale e dei romani stessi, sulla religione pagana.

L’analisi si avvale del contributo della storia sociale, della linguistica e dell’archeogenetica per dimostrare come la popolazione dei Naharki, la “tribù” degli antichi umbri che abitava la Valle Ternana, sia nata dall’ibridazione culturale e genetica di popolazioni provenienti dalla “Mezzaluna fertile” della Mesopotamia nel periodo Neolitico, caratterizzate da una società matriarcale e dal culto della Dea Madre, e dalle popolazioni “Kurgan” approdate nella Valle Ternana dopo il passaggio per l’area alpina di Hallstatt, la Liguria, la Romagna e le Marche, arrivando a Terni dalla costa orientale.

I Kurgan avrebbero introdotto una società gerarchica e organizzata, il culto del Sole e il patriarcato, senza però cancellare del tutto le antiche tradizioni dei popoli arrivati nel Neolitico, ma integrandole.

I Kurgan avrebbero dato origine alla cultura celtica, poi diramatosi in diverse aree geografiche: a nord-ovest verso la Francia, il Galles, l’Irlanda, la Scozia, a Sudest verso l’Italia e i paesi balcanici.

La parte più “dirompente” delle tesi di Pierluigi Bonifazi è quella sull’origine di Roma: la città sarebbe stata fondata dai pastori naharki e sabini che si spostavano verso sud per la transumanza, e che si sarebbero mescolati con le popolazioni “latine” autoctone. L’Eneide sarebbe stata di fatto un’opera su “commissione” per rimuovere dalla storia le origini “barbariche” di una Roma figlia dei popoli provenienti dalla steppa e della cultura del “lupo” dei Kurgan, esattamente come umbri, sabini e sanniti, e rappresentarla come erede della raffinata cultura greca.

La lotta tra i due fratelli, Romolo e Remo, una metafora della “guerra” tra le due anime fondatrici della cultura romana. E Remo, il soccombente, rappresenta quella umbro-sabina.

A dimostrare l’affinità tra gli abitanti attuali dell’Umbria meridionale e del Lazio centro-settentrionale ci sarebbe il marker genetico U1512, riscontrato in queste popolazioni in maniera nettamente superiore che nel resto d’Italia, marker che prova l’origine celto-germanica e non greco-romana degli italiani (almeno di quelli dell’Italia settentrionale, centrale e sud-orientale, ma lo stesso marker appare diffuso anche in Sardegna e Corsica).

Per quanto riguarda l’origine degli Etruschi, già gli studi del professor Luigi Luca Cavalli Sforza del 1994 ne ipotizzavano l’origine non autoctona degli Etruschi. I recenti studi di archeo-genetica confermano negli etruschi la prevalenza della componente di origine anatolica neolitica e di quella Kurgan dell’età del bronzo, esattamente come per gli Umbri. Resta l’enigma della lingua non indoeuropea che gli stessi etruschi parlavano, probabilmente un “relitto linguistico” di una cultura agricola del neolitico precedente a quella indoeuropea.

Un’altra metodologia per ricostruire le migrazioni e le origini dei popoli attuali è quella di studiare le metodologie di sepoltura.

E un tratto comune alle popolazioni di origine paleo-celtica italiane, la cosiddetta “cultura villanoviana” dal nome di una necropoli nei pressi di Bologna, è quella di aver introdotto il rituale dell’incinerazione.

L’origine comune di buona parte delle popolazioni dell’attuale Italia Centrale, figlie dei “pastori guerrieri” provenienti dalla steppa e della cultura Kurgan, come etruschi, umbri, sabini e romani (ma anche piceni e sanniti) sarebbe dimostrata sia dalla ricerca archeogenetica che da quella storico-sociale.

La storiografia ufficiale considera gli Dei del Pantheon romano derivati da quello greco.

Ma quali sono le prove che Marte sia la romanizzazione del dio greco della guerra Ares?

L’etimologia lo rende piuttosto affine al Marmor o Marmur adorato dalle popolazioni paleo-celtiche (dal quale deriva il toponimo “Cascata delle Marmore”. Mehter (pronunciato Marter) era anche il nome della Dea Madre adorata dalle popolazioni yamnaya, legata alla primavera, alla fertilità, alla vita.

Il passaggio dalla cultura a prevalenza matriarcale a quella patriarcale, d’altra parte, ha spesso determinato la mascolinizzazione delle dee, e la nascita di un loro corrispettivo “lunare” e femminile.

Un esempio è la “traslazione” della Dea Lupa (o Dea Pennuta, o “Bona dea”) divinità della vita e delle fertilità, nel dio “maschile” Luperco con le stesse prerogative.

Una parte specifica del libro è dedicata alla damnatio memoriae sulle origini di Terni e dei suoi fondatori, il popolo dei Naharki.

Tra le ipotesi del libro, quella che l’eretica città di Dite della quale parla Dante nella Divina Commedia sia Terni, e che la Valle dell’Amsanto della quale parla Virgilio nell’Eneide sia non l’attuale Valle dell’Ansanto in Irpinia, ma la Valnerina.

Secondo lo storico Giovanni Lauro, il cui libro fu messo all’indice dalla Chiesa per secoli, la città è stata fondata almeno 15 anni prima di Roma.

Il simbolo della città, il Thyrus, è associato dalla narrazione dominante alla “malaria” e si racconta che fu sconfitto da un nobile guerriero della famiglia guelfa Cittadini.

Thyrus, atrio di Palazzo Spada, Terni
Thyrus, atrio di Palazzo Spada, Terni

Ma allora perché oggi questa “chimera” metà drago e metà serpente è il simbolo di Terni e una statua compare nell’atrio di Palazzo Spada?

Secondo Pierluigi Bonifazi, la forma attuale del Thyrus deriva da quella di un animale sacro a molti popoli antichi come l’oca (i romani stessi raccontano la storia o leggenda delle oche del Campidoglio che salvarono la città) assimilato all’antica Dea Madre o Pennuta, e la forma attuale della rappresentazione sarebbe stata assunta nei secoli, con la chiesa di Roma che ha trasformato la pacifica oca in un temibile drago.

La lotta tra il Thyrus e il guerriero della famiglia Cittadini rappresenta in quest’ottica la guerra tra il cristianesimo e la cultura pagana degli umbro-naharki, in quanto Terni è stata la città italiana che ha resistito con più ostinazione alla cristianizzazione forzata e imposta con metodi tutt’altro che pacifici a partire dall’Editto di Teodosio in poi.

La Chiesa di Roma non poteva sopportare la diversa concezione dei costumi sessuali dei “pagani” e il loro rispetto per la natura e i cicli della stessa, perché per il cristianesimo non solo Dio è superiore alla natura, ma lo è anche l’uomo, creatura a sua immagine e somiglianza.

Solo nel XVI secolo il paganesimo ternano è stato sconfitto in maniera definitiva, dopo secoli di lotta tra repressione e assimilazione culturale, come avvenuto con la trasformazione delle festività dei “Lupercali” legate alla fertilità nella ricorrenza di San Valentino del 14 febbraio ancora oggi “festa dell’amore” e festività patronale cittadina.

Il millenario culto “matriarcale” della Bona Dea è stato assorbito dal cristianesimo nel culto della Vergine Maria.

Un esempio di damnatio memoriae, secondo l’autore del libro, è la liquidazione della necropoli di Pentima, nella zona dove oggi sorgono le acciaierie, come quella di un non precisato “popolo pre-romano” mentre sarebbero evidenti soprattutto nelle sepolture femminili di alto rango affinità con la cultura dei popoli Kurgan.

Un altro è il buio che è calato sui locali dell’antico tempio pagano sotto la Basilica di San Valentino. Potrebbe trattarsi di mitrei, potrebbe trattarsi di templi dedicati al culto “matriarcale” della Dea Lupa (e successivamente di Luperco). I locali sono murati dalla fine degli anni Ottanta, e pertanto è impossibile studiarli.

La damnatio memoriae è calata da secoli sugli antichi culti pagani, soprattutto quelli preromani e quelli di tipo “matriarcale” e ancora oggi parlare di questo appare un tabù.

Anche la Chiesa di Sant’Alò, seminascosta nel centro storico, presenta numerosi segnali dell’antico tempio pagano dedicato a Cibele (e infatti, è stata sconsacrata più volte dalla Chiesa di Roma).

Leone sacro a Cibele e al sole, inserito sulla facciata di Sant’Alò

Nell’ultimo capitolo Pierluigi Bonifazi si occupa del caso Carsulae” sito archeologico che si trova attualmente nei pressi di Sangemini, e che la storiografia ufficiale rappresenta come una città di fondazione romana abbandonata per motivi ignoti alcuni secoli dopo la nascita di Cristo.

Carsulae

L’attento studio dei resti di Carsulae evidenzia l’assenza di abitazioni (le insulae) e di una rete idrica.

Come poteva questo sito essere una città nel senso che le diamo oggi? Carsulae, con tutta probabilità, è stata una delle “città sacre” dei Naharki consacrate a Valentia, una delle tante incarnazioni della Dea Madre, una città cerimoniale dove politici, magistrati e sacerdoti umbri si riunivano per amministrare il potere.

Il suo nome era forse Velxa, mentre la parte abitata Carsulilluss sarebbe l’attuale Sangemini.

Attorno al 386 a.C. il saccheggio di Roma da parte dei Celti, con gli umbri che ne favorirono il passaggio nei loro territori, determinò una terribile rappresaglia dei romani che distrussero per sempre le città di Nahartika (Terni) Nequinum (Narni) e Valenzia, per poi rifondare su quello che restava le prime due come Interamna Nahars e Narnia.

Con la cristianizzazione, la damnatio memoriae divenne anche culturale.

A secoli di distanza, ancora oggi queste tesi, supportate da molti studiosi come Manlio Farinacci (il primo a sostenere apertamente la tesi della “Terni celtica”), Stanislao Bardetti, Massimo Pallottino (questi ultimi due solo in parte) e che trovano numerosi riscontri dall’analisi archeogenetica e storico-sociale, suscitano “scandalo” perché mettono in discussione la narrazione storicista e “progressista” in senso non politico, ma letterale, secondo la quale la storia non è il risultato di quella che Michel Foucault definiva in Bisogna Difendere la Società una continua lotta etnica e culturale, e quindi una ricostruzione situata scritta dai vincitori, ma un processo con una direzione evolutiva verso la perfezione.

Il modello che ha permeato le culture politiche e religiose del Novecento, dal comunismo hegeliano-marxista al cristianesimo, dal liberalismo, alla cultura della destra italiana ed europea strettamente legata alla morale cattolica e al culto della romanità.

Con quale criterio, se non con quello che la storia la scrivono i vincitori, possiamo affermare che l’organizzazione politico-sociale e l’architettura romana siano state un’evoluzione di quella dei naharko-sabini dalla barbarie alla civiltà, o che il cristianesimo sia un’evoluzione moralmente superiore del paganesimo (ovviamente dal punto di vista storico, non religioso).

Con una corposa argomentazione a carattere multidisciplinare, e con fonti di alta qualità, sia di tipo archeogenetico, che storico-sociale e linguistico, il libro di Pierluigi Bonifazi mette quindi in discussione  non solo le origini di Terni e delle popolazioni dell’Italia Centrale, ma anche il mito fondativo della “civiltà occidentale” greco-romano-cristiana, che in ultima analisi sarebbe figlia dei pastori guerrieri e pagani che arrivarono in Europa dalle steppe orientali,  e che avrebbero fondato la stessa città di Roma.

Un libro di grande interesse, per gli addetti ai lavori o per chi abita in queste zone dell’Italia centrale, ma anche per chi vuole guardare in maniera più realistica e meno agiografica ai “miti fondativi” della cultura italiana e occidentale contemporanea.

 

Umbria Antica è pubblicato da Italus edizioni (Ladispoli)

 

L’autore

Pierluigi Bonifazi, biologo molecolare e ricercatore, è laureato in Scienze Biologiche indirizzo biomolecolare e dottore di ricerca in Biologia e Medicina Sperimentale. Autore di oltre quaranta pubblicazioni su riviste scientifiche di primissimo piano come Nature, è presidente dell’Associazione di Promozione Sociale Umru, esperto in archeo-genetica e genetica di popolazioni.

L’associazione Umru

Rifondata nel 2022 dopo trent’anni, l’associazione Umru si occupa di ricerche storico-sociali e genetiche sulle origini delle popolazioni che abitano oggi la Valle Ternana e l’Italia Centrale in generale. La Valle Ternana, per la sua particolare posizione, è stata per secoli uno snodo fondamentale dei commerci fra centro-Europa e nord Africa, e fra la costa tirrenica e la costa adriatica, grazie alla presenza dei due fiumi Tevere e Nera. Il primo studioso a occuparsi delle origini celtiche delle popolazioni della Valle Ternana è stato Manlio Farinacci, le cui ricerche furono a lungo osteggiate dall’archeologia e dalla storiografia “ufficiali”.