Politica, Noi e gli Antichi

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La dialettica tra Atene e Gerusalemme, attraverso Roma, per comprendere la modernità.

di Antonio Calicchio

Fra le righe di un corso universitario, svolto da Heidegger, nel 1942/1943, a Friburgo, trasfuso nell’opera dal titolo Parmenide, ritroviamo un giudizio che passa dalla metafisica alla politica nella scoperta della radice più profonda dell’Occidente in cui si riflette sulla esperienza greca secondo il modello latino, cristiano, romanistico e moderno.

La politica, che ricavava la sua origine dal sistema della polis, vuol dire qualcosa di “romano”, sin dall’epoca dell’Impero. Ciò che vi resta di greco si riduce al mero suono della parola. La perdita della situazione originaria di verità si sarebbe verificata a Roma quando il “vero” venne identificato con “retto” e “giusto”; e il falso non era più ritenuto – come in Grecia – nella sua dimensione di nascondimento della verità. A cominciare dall’ordinamento imperiale – asserisce Heidegger – il vero diviene il restare-diritto e la verità è rettitudine, ciò che è giusto.

Dall’altro lato, si trova Kierkegaard secondo cui l’opposizione di linguaggio e politica non appartiene alla storia della metafisica, ma riporta ad un distacco ironico dell’azione pratica; egli scrive, nel Diario: “I nostri politicanti sono come i pronomi reciproci greci che mancano del nominativo, del singolare e di tutti i casi del soggetto: non si possono pensare che al plurale o nei casi obliqui”.

Comunque, qualsiasi scelta venga compiuta al riguardo, nessuno potrà sottrarsi al confronto con la civiltà greca e romana e la sua esperienza giuridica e politica. Ed infatti, una consistente parte dei popoli che vivono nell’Europa moderna discende, in maniera diretta ed immediata, dalla “gente” di Roma, dalla sua cultura, dalla sua storia, dalla sua lingua. Oltre a ciò, sussiste, nel rapporto tra “noi” ed i Romani, un qualcosa di assai più identificante.

Per secoli, Europei ed Italiani hanno letto le stesse opere dei Romani – Cicerone, Virgilio, Livio – e studiato il latino. Attraverso la lettura dei testi latini, l’Europa, in particolare, e l’Occidente, in generale, hanno assimilato concezioni del mondo, della politica, della società o dei rapporti interpersonali che provengono tutte da Roma. Sotto questo profilo, la nostra è ineluttabilmente una cultura “da Romani”. E, come affermava Dumézil, essi furono “giuristi per vocazione”, e cioè giuristi nati. Da un punto di vista antropologico, va rilevato che lo ius, il diritto, rappresenta la più importante produzione culturale romana, una forma mentis che struttura il tempo, lo spazio, il linguaggio retorico, la letteratura, l’iconografia, le stesse emozioni. Non appare, quindi, agevole porre, sui Romani, uno sguardo da lontano, come dovrebbe essere quello comparativo, quando si è all’interno della loro cultura: ed infatti, Roma si rivela, a noi, troppo conosciuta e troppo familiare affinché la si possa comparare con altri. Pertanto, per raggiungere Roma, attraverso il percorso della comparazione, occorrerebbe far leva e basarsi sugli aspetti più singolari ed inconsueti della cultura romana. E ciò che sarebbe – preliminarmente – opportuno è estraniare, da noi, quella cultura, evidenziando, rispetto ai Romani, sia ciò che “noi” non facciamo, sia ciò che altri non fanno.

Gli antichi ci riguardano”, dunque, come perentoriamente ed icasticamente sostiene Canfora! E ci riguardano in quanto il loro studio costituisce una risorsa per capire quel che ci accade intorno: ad es., il rapporto libertà-dipendenza, la lotta per la cittadinanza, la competenza quale requisito della politica. Questioni, queste, oggi cruciali che già percorrevano le antiche società. E la filosofia greca si è dilaniata proprio in merito al problema della competenza. Non è chi non veda come all’interno di tale dilemma sia racchiusa una delle più acute ed attuali acquisizioni del pensiero politico: l’individuazione della “migliore forma di governo”, unitamente ad un’altra aspirazione antica, ossia quella che gli uomini debbano essere governati dalla legge e dal diritto, e non dall’arbitrio di altri uomini. Da ciò deriva la nascita dello Stato di diritto che rappresenta l’incarnazione moderna di siffatta idea che, peraltro, si fonda su tre fondamentali presupposti: la separazione dei poteri, la supremazia della legge e del diritto, i principi di libertà ed uguaglianza. E da essi discendono le istituzioni che, ancor oggi, informano la nostra vita civile e politica: dai parlamenti alle costituzioni, dalla tutela dei diritti dinanzi ad un giudice-terzo alle corti costituzionali.

Trattasi, quindi, della “storia” di una incessante tensione dialettica tra Atene e Gerusalemme, tra politica e religione, tra potere e morale, tra diritto positivo e diritto naturale-divino, tra legge e coscienza, tra ragione e fede che, attraverso Roma, è sfociata nel “diritto pubblico europeo” – diritto che è la grammatica di ogni società – nella consapevolezza, però, di una modernità in profonda crisi politica, economica, ma soprattutto antropologica. Perché la storia è non soltanto narrazione di eventi, ma anche spiegazione e, entro i suoi limiti, disciplina congetturale. Di fatto, gli avvenimenti indicano – a prescindere dalla loro configurazione storica – delle realtà, delle linee di forza, dei punti luminosi che implicano, al di là del loro splendore e della loro singola storia, la ricostruzione del contesto in cui si situano. Di qui l’esigenza di trascendere l’alone luminoso degli avvenimenti che è solo una prima fase, nella prospettiva della definizione della storia, elaborata da Braudel, quale “misura del mondo”.