CERVETERI AL TEMPO DELLA PESTE

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MIGLIAIA DI MORTI A ROMA E DINTORNI. GRAZIATA LA COMUNITÀ CERVETRANA PER INTERCESSIONE DEI SANTI SEBASTIANO E ROCCO.

di Angelo Alfani

La peste che, dal 1656 al 1658, sconvolse Napoli “riducendo la metropoli in un cimitero”, molto probabilmente sbarcò nella città da una nave proveniente da Cagliari, dove il terribile flagello era approdato ad Alghero portato, a sua volta, da una imbarcazione proveniente dalla Catalogna. In Spagna il contagio era giunto nel 1647 tramite “un bastimento carico di cuojo e di altre pelli proveniente da Algeri, giunto a Valencia”. Il Mediterraneo, da sempre via di comunicazione, di commerci, grazie alle quali si erano mossi uomini, merci, idee, si dimostra anche veicolo di malattie: i virus, i contagi, le pesti nascono con la “civiltà” con il passaggio dalla società di cacciatori-raccoglitori a quella di comunità stanziali di agricoltori.

La risposta del clero napoletano, fatta da processioni e preghiere collettive, e l’inadeguatezza assoluta delle misure prese dalle Autorità, favorì soltanto la peste aumentando a dismisura le occasioni di contagio. Si giunse al punto di scavare enormi fosse comuni nelle grandi piazze utilizzando centinaia di carcerati liberati all’uopo. La peste salì in fretta a nord e penetrò nello Stato Pontificio, dapprima, in casi isolati e subito circoscritti, a Civitavecchia, poi – definitivamente e dalle conseguenze devastanti – attraverso qualche feluca napoletana giunta, nonostante la quarantena, clandestinamente a Nettuno. In una caldissima primavera, la conferma dell’ingresso nella Città Eterna, giunse dall’ospedale San Giovanni con la morte di un pesciajuolo napoletano, con evidenti segni di pestilenza, il 18 giugno del 1656. A differenza di quanto avvenuto nel napoletano, al primo sospetto che la peste stesse per contagiare Roma, il pontefice Alessandro VII affidò al cardinale Girolamo Gastaldi, da tempo commissario per i lazzaretti ed ora capo della Congregazione della Sanità, la direzione dei provvedimenti necessari alla difesa. Il cardinale, privo di esperienze medico-sanitarie, si avvalse dei suggerimenti sulle pestilenze di specialisti per organizzare un cordone sanitario. Mise da subito in atto provvedimenti che avrebbero potuto contenere la diffusione della peste: proibizione di accesso in città a quanti provenivano dai paesi infetti o sospetti; istituzione e obbligo di presentazione delle patenti di sanità; sorveglianza delle porte di Roma – ne rimasero aperte solo otto, controllate da soldati a cavallo e delle vie d’accesso; ispezione delle mercanzie e delle vettovaglie; istituzione di luoghi di isolamento dei sospetti e di luoghi di disinfezione dei nuovi arrivati; istituzione dei lazzaretti e reclutamento forzato del personale medico e di servizio.

Vennero costruite torri di osservazione, recinzioni, galere e pattuglie ovunque lungo tutto il confine. Sospensione di ogni tipo di scambio commerciale con luoghi infettati, Civitavecchia in primis. Le difficoltà nel far rispettare le direttive furono molte ed i buchi, nella pur serrata rete del cordone, diffusi. Da ricordare a tal proposito “l’episodio di un canonico di Bracciano, ammalato, che nell’agosto del 1656 riuscì a passare il blocco sanitario alle porte della Città’ per tornare al suo paese, appare incredibile, tanto era stretta la vigilanza. Il canonico sparse l’infezione, ma tutto fu tenuto nascosto dal parroco che registrò i numerosi decessi come naturali e solo dopo qualche anno, annotò, accanto al nome del canonico, come si erano svolti realmente i fatti. ”La capacità di controllo di quanto avveniva sul territorio è ben rilevata dalla tempestività con cui venne affisso il bando di interdizione di commercio per 15 giorni con Bracciano, per sospetto di casi di peste.

Ma nonostante l’impegno sostenuto (il Papa venne addirittura paragonato ad: “un Ercole vittorioso sul drago gigante della peste ,della carestia, e della guerra”) molte comunità del Lazio, adiacenti a Roma, furono spazzate via dall’arrivo del flagello. Altre ebbero una moria del 60%; solo poche furono quelle che non subirono vere e proprie stragi, e nessuna di esse si salvò del tutto dalla peste.Solo a Roma i morti furono più di diecimila. Cerveteri che, stando ad una visita pastorale fatta in quegli anni, risulta avere “circa duecento abitanti nella estate, nell’inverno circa mille: la maggior parte si allontana per timore dell’aria cattiva” venne graziata dalle due terribili pesti del seicento. Sarà stato per la vasta zona acquitrinosa a ridosso dell’Aurelia, per le colline fitte di prugnoli, impenetrabili macchioni di roselle, roveti e i profumatissimi stracciabrache, che la proteggevano dai braccianesi, o ancor più per l’inconsistente interesse ad arrampicarcisi, o più verosimilmente per il diretto intervento dei santi Sebastiano e Rocco ardentemente invocati dalla Comunità? È un fatto che la Confraternita fece costruire la chiesa ad unica navata ampiamente voltata, ricca di affreschi, a loro dedicata, per aver salvato la popolazione cervetrana dal flagello della peste.