C’era una volta la scuola

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Scolaresca anno 1930

di Angelo Alfani

Questo è il primo di una serie di articoli che vuole raccontare la storia della scuola cervetrana dagli anni trenta fino ai sessanta, nella convinzione che il suo mondo rappresenti al meglio la società ed i suoi cambiamenti.

Il sesto Censimento nazionale del 1931, voluto espressamente dal Duce, attribuì a Cerveteri 2.452 abitanti: seicento in più rispetto a quelli censiti nel decennio precedente. Don Tazzari officiò ben ventinove funerali e ventidue matrimoni.

La grande depressione, che seguì il crollo di Wall Street, causò un immiserimento così diffuso da convincere, per contrappasso, le mamme italiche a mettere al mondo nuove creature. Settantaquattro tra pupetti e pupette furono unti quell’anno dal prete romagnolo nella tufacea chiesa di Santamaria.

Un autentico boom, tanto che pochi anni dopo la Direzione didattica decise di raddoppiare le aule assegnate alle classi elementari nell’edifico scolastico per non avere aule zeppe come n’ovo.

Le classi, composte anche da ottanta alunni, erano distinte in maschili e femminili: la mattina toccava ai maschi sorbisse la tortura de sta’ composto, al pomeriggio alle femmine. Classi gonfie ma che si dimezzavano quando era tempo di raccogliere il grano o l’oliva, al punto che la guardia municipale passava mattinate intere a fare le debite ricerche degli assenti.

In fondo all’aula, in controluce, la cattedra e la lavagna. Una stufa in cotto, della ditta Felici di Prato, piazzata a ridosso della parete d’ingresso, con un lungo tubo accroccato alla meno peggio che sbuffava fumo che faceva lacrimà i già arrossati scolari.

Ciocchetti di legno, careggiati dai tanti forzuti ripetenti, alimentavano la fiamma che a malapena stiepidiva l’aula e avvampava le chiappe delle quattro maestre, che ce le strusciavano addosso nella inutile speranza di riscaldarsi. Agli ultimi banchi se battevano le brocche ed i piedi sul pavimento, soffiando aria calda sui geloni che gonfiavano le dita.

Ed era negli ultimi banchi che venivano ammucchiati i sumaroni, giovanotti rubati alle zappe, come li apostrofava il docente di etica fascista. Ed era tra loro che tentativi di ribellione al conformismo in orbace, si manifestavano facendo esplodere in sghignazzi l’intera classe.

Frustoni (innocui serpenti), estratti dalle cartelle, venivano indirizzati a zampate verso le ingenue insegnanti; fughe dalle finestre o lungo il corridoio con inseguimenti a scopettate da parte delle bidelle. Scritte e disegni osceni, incavati sui banchi da coltelli appuntiti, o con la carbonella sui muri di puzzolenti latrine; calamai che venivano svuotati dell’inchiostro prima della lezione o riempiti di carta in modo da rendere impossibile al pennino di scivolare con eleganza sul quaderno. Ed erano proprio questi “adulti” che le Autorità decidevano ogni biennio di levarseli di torno, facendoli passà.

Ogni sabato, in una atmosfera di infantile entusiasmo, le scolaresche, coi moschetti di legno, terminati i saggi ginnici stara ciani, venivano sottoposte all’interrogatorio. Le autorità vestite a lutto, stivaloni tirati a lucido, capeggiati dal segaligno farmacista, capo claudicante della tribù dei neri, mandavano in subbuglio la capoccia dei balilla con domande sul Giuramento solenne, sul Credereobbedirecombattere, sul Natale di Roma, sui fasci di Combattimento, sul Sacro Piave, sul Duce e sulle altre indiscusse ed indiscutibili Autorità.

Accadeva anche che le tante ore di esercitazione costringessero i balilla a porre domande indiscrete: “Capocenturia posso annà al cesso?” Il capocenturia urlando forte in modo da mettere in difficoltà il poraccio che se teneva stretto con le mani per non fassela sotto: “No!Crepa!”.

Era in quel modo che si forgiavano i nuovi destini della patria immortale.