PRIMA LA SALUTE O PRIMA L’ECONOMIA?

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1947
salute

 

Prima le persone umane, tutte, altrimenti nessuno e nulla potrà salvarsi

di Antonio Calicchio

Vorrei appuntare l’attenzione in merito ad un interrogativo, altamente diffuso in questo periodo: “Prima la salute o prima l’economia?”. Esso, con estrema frequenza, ricorre, soprattutto adesso che, in epoca di pandemia, è divenuto il “mantra” delle nostre giornate, la moneta corrente di scambio linguistico, quasi una domanda di rito, una giaculatoria ripetuta nelle conversazioni quotidiane, pubbliche e private.

Mi chiedo: siamo certi di aver ben compreso il senso, la scala di valori etici e le scelte giuridico-politiche cui tale interrogativo rimanda? Anzitutto, si dovrebbe capire cosa si intende col termine lessicale “salute”. Essa non è soltanto assenza di malattia: come afferma l’Oms, è uno stato di benessere sia fisico e biologico, sia psicologico e relazionale-sociale. Si tenga conto di siffatta definizione concettuale quando si penalizzano, in nome della prevenzione del rischio di contrarre il virus, altri aspetti della salute, riducendo il movimento, differendo gli accertamenti medici o sospendendo i ricoveri e le terapie per altre patologie; ovvero quando si trascurano altre dimensioni della salute, come quella psicologica o relazionale e sociale. Perché, dunque, si sostiene che viene prima di tutto? Forse perché la si colloca prima della economia che, in Marx, è la “struttura” della società da cui derivano le varie sovrastrutture sociali. Però, si faccia attenzione: non si pensi che la salute è solo necessaria come precondizione per una ripartenza dell’economia o per un migliore svolgimento delle proprie mansioni lavorative o per una riduzione dei costi sociali e sanitari a carico della collettività, altrimenti si scivola nell’errore da cui si vuole fuggire, ossia quello di dimenticare che il fine – come postulava Kant – deve essere sempre la persona.

Prima, quindi, la persona, come senso della guerra contro il Codiv-19. Perché mai, come ora, si può essere coscienti della vanità assoluta della pretesa e della presunzione individualistica di salvarsi da soli. Perché se si ha chiaro e fermo questo principio generale, allora può affrontarsi, in maniera giusta ed efficace, ogni problema: dalle guerre alle prove di forza economica, dagli equilibri o squilibri nei bilanci pubblici ai mutamenti climatici, dalla legittimità della ricchezza privata e del debito pubblico al diritto all’istruzione, dalla convivenza di soggetti con fedi e concezioni differenti alla parità uomo-donna, dalla difesa della salute alle migrazioni, e via discorrendo. Oppure, nulla e nessuno si salverà. Prima la persona, dovunque viva, qualsiasi pelle abbia, qualunque cultura pratichi, ricca o povera, integrata o marginale. E tutto ciò – per credenti o non credenti – altro non vuol dire che la “fratellanza” è non solamente una nozione concettuale astratta, ma anche e soprattutto un modo di vivere e di pensare che muta il corso della storia. Pertanto, appare illuminante, e fuori di ogni retorica, asserire che la fratellanza rappresenta uno dei pilastri su cui si fonda la migliore filosofia politica dalla fine del sec. XVIII ad oggi. “Fratellanza, libertà ed uguaglianza”. Prima la persona, significa che possediamo un parametro etico “caldo” per affrontare il male e la malattia che – hic et nunc – sono parte della nostra esperienza umana, ma non la esauriscono. Prima la persona, costituisce un metro fraterno, caldo, che supera quelle che Spinoza chiamava “passioni tristi” da cui la nostra epoca è dominata, rendendo la crisi attuale diversa dalle altre cui l’Occidente ha saputo adeguarsi. Ed infatti, il cambiamento imposto dal virus sembra una sofferenza difficile da tollerare, sebbene – come evidenziato – l’umanità sia riuscita ad affrontare vicende peggiori. E questo accade in quanto siamo nella condizione in cui la modernità, la tutela tecnica, la globalizzazione, il mercato, vale a dire tutto ciò che viene denominato progresso si trova ad avere a che fare con la limitatezza e la fragilità umane: pensavamo di avere sotto controllo tutto, pensavamo che la tecnica è un mero strumento nelle nostre mani. Ed invece, essa è il soggetto della storia. Heidegger diceva che “la tecnica non è neutrale” poiché crea una dimensione con determinate caratteristiche che sono inevitabili e che ci trasformano. La tecnica ha sì una razionalità elementare, ma molto potente, ovverosia quella di conseguire il massimo degli scopi con l’utilizzo minimo dei mezzi. E le uniche qualità richieste all’uomo sono l’efficienza e la produttività, col conseguente rischio di porre fuori gioco quel che rende davvero umani giacché l’uomo è non solo razionalità, ma pure fantasia, immaginazione, desiderio, sogno; e ciò che fuoriesce dalla logica della tecnica diviene autentico fattore di disturbo.