UNA SPIEGAZIONE PSICOLOGICA TRA MOLTE.
Premetto anzitutto che il femminicidio è un fenomeno molto complesso, che necessita di essere analizzato da più punti di vista: psicologico, sociologico, filosofico, antropologico, storico, etc. Non credo esserci una causa unica, superiore alle altre, che sia più valida come spiegazione. Per tale motivo io potrò parlare solo di ciò che mi compete, ovvero del livello psicologico.
La mia tesi, che è solo un punto di vista tra molti all’interno della spiegazione psicologica del fenomeno, è quella che vede il femminicidio essere legato alle vicissitudini dello sviluppo infantile. La tematica sottesa alla violenza sulla donna (o sull’uomo da parte della donna, sebbene il fenomeno sia più raro e abbia comunque meno eco mediatico) propongo essere la reazione di disperazione nei confronti dell’esperienza della perdita e della separazione dalla persona nei cui confronti “abbiamo messo tutto”.
Per capire la reazione di rabbia e violenza degli uomini sulle donne, quando queste minacciano di lasciarli, basta guardare al comportamento dei bambini piccoli quando sentono minacciato il loro legame con il genitore di riferimento (che solitamente, ma non esclusivamente, è la madre): si disperano e protestano rabbiosamente, ma prima – e questo punto è molto importante per capire il fenomeno – si spaventano e si angosciano per essere stati lasciati senza protezione e sicurezza.
Alla paura e alla tristezza della perdita reagiscono con rabbia e protesta, anche violenta, la quale ha un duplice scopo evolutivo: richiamare a sé la figura di attaccamento, dalla cui protezione dipende la nostra stessa sopravvivenza ed evitare di sentire il dolore psicologico dell’abbandono.
La rabbia è infatti il miglior antidoto che conosciamo contro la depressione, il dolore e l’angoscia: è come un tappeto che nasconde tutte le altre emozioni e ci dà l’illusione di essere forti e proattivi, insensibili alla fragilità che invece si sta facendo sentire nel nostro profondo. Ecco, la mia tesi è che questi adulti non abbiano superato in maniera adeguata quella fase dello sviluppo infantile in cui avrebbero dovuto imparare a gestire la separazione psicologica dalla figura di attaccamento e a calmarsi, a tranquillizzarsi quando avviene una separazione affettiva; e altresì ad iniziare ad avere una relazione con se stessi attraverso la quale sentire le proprie emozioni senza fuggirle, così da poterci “fare qualcosa”, ovvero trovare il modo di calmarsi.
Farsi compagnia, stare in compagnia di se stessi credo sia fondamentale in questi casi, per gestire il dolore psicologico di una separazione affettiva. Se, per svariati motivi che qui non posso sintetizzare, non abbiamo imparato ad avere una relazione con noi stessi, possiamo sempre imparare da adulti come fare, diventando i genitori di noi stessi.
In questo modo, intanto nell’altro non metteremo “tutto”, chiedendo al partner di essere al contempo nostro padre, madre, fratello, nonno, nonna, etc. e potremo funzionare “meglio” in nostra compagnia, senza essere sopraffatti dal senso di vuoto, dal dolore e dal terrore quando l’altro si allontana o ci lascia, sentendo che alla fine non siamo mai soli, perché abbiamo sempre noi stessi, come risorsa per darci gioia, calma e senso di sicurezza. Noi non siamo una metà della mela e il partner l’altra metà perduta, noi siamo la mela intera e l’altro un’altra mela con cui fare coppia.