E se la nave affondata 106 anni fa non fosse stata il Titanic?

0
3461
partito democratico di cerveteri
immagine barca che affonda

di Antonio Calicchio

L’ipotesi è indubbiamente ardita e sconvolgente: e se in fondo all’Oceano Atlantico si fosse inabissato non già il Titanic, bensì un transatlantico gemello, che era rimasto danneggiato – in conseguenza di una collisione con una nave da guerra corazzata – ed aveva perso un’elica, venendo sottoposto, pertanto, a necessari interventi laboriosi? Scrivono Robin Gardiner e Dan Van Der Vat, autori del libro I due Titanic: “Non sarebbero serviti grandi cambiamenti, ma sarebbe bastato invertire le placche con i nomi e pochi altri particolari come i salvagente (pochissimi oggetti recavano il nome della nave), un compito per cui sarebbero bastati pochi uomini che avrebbero fatto finta di lavorare a bordo delle due navi”. Insomma, il vero Titanic non sarebbe partito. Riparato alla meglio, fu fatto partire l’Olympic.

   Il revival del famoso e drammatico naufragio, nella notte fra il 14 e il 15 aprile 1912, sull’onda del successo conseguito dal film di J. Cameron, ha agevolato alcune ristampe e richiamato l’attenzione relativamente a pubblicazioni in parte dimenticate. Il libro di Walter Lord (Titanic Latitudine 41° Nord) e quello di Arthur C. Clarke (Il fantasma del Titanic) figurano, l’uno, fra le ricostruzioni maggiormente attendibili, l’altro, fra i lavori di fantasia maggiormente riusciti.

Nessuno, prima di Gardiner e Van Der Vat, aveva sinora avanzato una simile ipotesi; il suffisso –ic era tipico delle grandi navi della White Star Line: Olympic, Titanic, Britannic, come il suffisso –ia lo era delle navi della Cunard Line, Mauretania, Lusitania, etc. E la competizione, fra le due società, era accanita, la posta era costituita, oltre che dal “nastro azzurro”, per la traversata più veloce, anche da un mucchio di sterline.

Il materiale impiegato dai cantieri Harland & Wolff di Belfast rappresenta un altro aspetto inesplorato. Con la temperatura dell’acqua sotto zero, l’acciaio si spezzava, all’urto, come vetro.

Come noto, l’urto si verificò, contro la massa immensa di un iceberg del peso di centinaia di migliaia di tonnellate; lo scafo venne “tagliato” per una lunghezza di un centinaio di metri e Thomas Andrews, amministratore della Harland & Wolff, emise una sentenza inappellabile: il transatlantico sarebbe andato a fondo in due ore al massimo.

I due principali responsabili della sicurezza della nave, il comandante Smith e il direttore esecutivo della White Star, J. Bruce Ismay, che si mise in salvo, mentre 1.500 passeggeri ed uomini dell’equipaggio perivano, avevano “spinto” sino ad una velocità di 22 nodi. Eppure, ben sei erano state le segnalazioni circa la presenza di iceberg. Per quale ragione la nave non decelerò? Perché le vedette in coffa non erano dotate di binocolo? L’Oceano era in calma piatta, la notte era illune, una leggera foschia ostacolava il tempestivo avvistamento dei blocchi di ghiaccio galleggianti. Insomma, quale fu la natura dell’incidente, tenuto conto della possibilità di ottenere anche dei risarcimenti dalle compagnie assicuratrici? Interrogativi inquietanti avvolti nell’enigma che, da centosei anni, è il tratto caratteristico di quella tragedia del mare.

Venne lanciato l’SOS, ma la sperata e tempestiva opera di soccorso, su una rotta molto frequentata, non avvenne. Il California (fermo fra i lastroni di ghiaccio) non si mosse, eppure era poco distante dal luogo del naufragio. Accorse il Carpathia, ma non in tempo utile per trarre in salvo tutti: gli scampati furono 711.

Gardiner e Van Der Vat insistono, inoltre, su un ulteriore punto della vicenda: la sconcertante analogia col naufragio ipotizzato, molti anni prima, dal romanziere Morgan Robertson, autore del libro Titan.