CHE CI FACCIO CON ME?

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me stesso

Prima parte
Stiamo con noi stessi in ogni secondo della vita e sembrerebbe dunque scontata la capacità di “abitare se stessi”, ma è tutt’altro che così. Anzi, invero è il contrario: sono numerose le persone che continuamente “fuggono” dall’entrare in contatto con se stesse.

Per “entrare in contatto con se stessi” intendo l’essere consapevoli qui ed ora del momento presente che si sta vivendo, relativamente a sensazioni ed emozioni che giungono dal nostro corpo e dalla nostra mente. E sono numerosi i disagi psicologici derivanti dal fatto di non sapere riuscire ad ascoltare queste informazioni; il che comporta un certo disagio quando si è soli e ci si domanda (più o meno consapevolmente) “ed ora che ci faccio con me?”.

Vediamo come ciò avvenga: noi essere umani veniamo al mondo con un potenziale nella capacità di ascoltare le sensazioni e le emozioni che arrivano da dentro di noi: abbiamo cioè dei sistemi innati percettivoaffettivi. Essi però, al pari del linguaggio e della capacità di parlare, devono essere sviluppati e potenziati grazie all’interazione ottimale con i caregivers (le figure di attaccamento principali per il bambino).

Bambini, per esempio, che nella loro infanzia non hanno parlato con altri esseri umani – noto in letteratura è il caso del “bambino-lupo” ritrovato nei boschi del sud della Francia nei primi dell’800 – non sviluppano il linguaggio e se poi stimolati a farlo non sono più in grado di sviluppare e/o accrescere oltre un certo limite molte capacità linguistiche che pure potenzialmente possiedono come capacità innate. Questa compromissione a causa delle carenze di relazioni accudenti che stimolano le funzioni mentali (come per la suddetta funzione linguistica) avviene anche per quanto concerne la capacità di “guardarsi dentro” e fare attenzione ai processi emotivi e sensoriali che si attivano momento per momento nell’interazione con la realtà di cui siamo circondati. Sto parlando della funzione mentale cosiddetta di “Mentalizzazione”, che potremmo definire, semplificando, come la capacità di ascolto dei propri stati interni (sensoriali ed emotivi) e la loro elaborazione (cioè traduzione in un pensiero che ne colga il senso e dia loro un nome); nonché la capacità di capire gli stati mentali degli altri (che è alla base dell’empatia umana).

Essa è dunque quella capacità mentale che consiste:
1) nel considerare il comportamento altrui come frutto di stati mentali simili ai propri ed è anche
2) la capacità di tenere a mente la mente propria e altrui, ossia di riconoscerne l’esistenza e regolare il proprio comportamento in base a ciò.

Pertanto quando il pensiero non contiene, né decifra, le informazioni sensoriali ed emotive che giungono dai sensi alla mente, noi siamo in balia di ciò che da dentro sale alla consapevolezza e a cui non possiamo dare un nome. Ne consegue un aumento notevole dell’ansia e lo sviluppo di tutta una serie di sintomi e comportamenti patologici tesi ad “evacuare”, “evitare” e “canalizzare” in qualche modo tutte queste informazioni emozionali interne non identificabili e dunque elaborabili. A queste persone – e sono tante perché il deficit di mentalizzazione è alla base di molte diagnosi psicologiche anche diversissime tra loro – manca dunque, o è deficitaria, la capacità di utilizzare il pensiero e la mente come un apparato per contenere, capire ed elaborare gli stati mentali propri e altrui.

Alla prossima settimana. Seguimi…

Dottor Riccardo Coco
Dottor Riccardo Coco
Psicologo – Psicoterapeuta

Dottor Riccardo Coco
Psicologo – Psicoterapeuta Psicoterapie individuali, di coppia e familiari

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