INTERVISTA A MASSIMO DAPPORTO: «NELLA VITA CI VUOLE IRONIA»

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Massimo Dapporto

INTERPRETE DI IMPORTANTI OPERE TEATRALI, CINEMATOGRAFICHE E TELEVISIVE, L’ATTORE PRESTA OGGI IL VOLTO PER FARCI RISCOPRIRE L’OPERA DI FLAIANO. 

di MARA FUX

Giornalista, critico cinematografico, sceneggiatore, autore di narrativa e d’aforisma Ennio Flaiano rientra senza alcun dubbio tra le personalità più poliedriche che il XX secolo ci abbia regalato ma per quanto il successo di pellicole come “La dolce vita” o “I vitelloni” siano note anche ai ragazzi, il nome di Flaiano è associato principalmente a “Tempo di uccidere”, unico suo romanzo, di cui egli stesso disse “… lo avrei dovuto scrivere tutto daccapo!”.
“Flaiano l’ho sempre ammirato per l’ironia” dice Massimo Dapporto protagonista del film UN MARZIANO DI NOME ENNIO diretto da Davide Cavuti “aver ironia nel guardare il mondo è tantissimo e personalmente quando ho a che fare con una persona ironica ci vado a nozze.”

Quanta ironia ci vuole oggigiorno?
“L’ironia non si può avere o ci nasci o non la hai; è una dote e se non la si ha di certo non la si acquisisce; è un punto diverso d’osservazione innato e che hai dentro e prorompe in chiave di sintesi mostrando l’oggetto da un’angolazione differente in una chiave tagliente risolutiva.”

Ha avuto occasione di incontrare personalmente Flaiano?
“No, non l’ho mai conosciuto; di lui mi parlavano due cari amici, Dacia Maraini ed Enrico Vaime che con lui andavano d’estate a Fregene quando Fregene era una località ove ancora si poteva fare il bagno e nulla aveva a che fare con quella cote brune che vedi oggi dall’aeroplano quando stacchi da Fiumicino. Dacia e Vaime facevano lunghissime passeggiate assieme a lui sul bagnasciuga e raccontavano che durante quelle passeggiate Flaiano era capace di raccogliere una pietra iniziando subitamente a narrarti la storia di quella pietra, dicendoti tutto di lei dal tempo degli antichi romani fino a quel momento senza perdere il filo della narrazione. Questo basti a far capire che grande capacità aveva di fantasticare spaziando nella storia.”

Come si è preparato per entrare nei panni di Flaiano?
“Come attore devo certamente attenermi ad un copione che però affronto diversamente da quando interpreto un ruolo: un conto è fare un medico, ben diverso è interpretare un personaggio realmente esistito perché più che in un carattere devi trasformarti in una persona. Quando ho interpretato Falcone, nell’incontrarmi personalmente le sorelle mi hanno accolto dicendo < è tornato a trovarci Giovanni >.”

Cosa l’ha aiutata nel caso di Falcone?
“Mi son state molto d’aiuto gli incontri con persone che lo avevano conosciuto come Giuseppe Ayala e Maurizio Costanzo.”

E nel caso di Flaiano?
“Ho proceduto con quello che sapevo di lui, con la rilettura dei suoi aforismi, delle sue sceneggiature.”
Ha letto anche “Tempo di uccidere”?
“Lo conoscevo già anche se devo ammettere che non è un romanzo che mi sia troppo piaciuto. Invece amo molto il Flaiano sceneggiatore, con sceneggiature di tale portata è difficile che un film non possa ottenere successo.”

Passiamo ora alla sua carriera artistica: sembra aver gettato alle spalle la televisione per dedicarsi sempre di più al teatro.
“La ragione è che dalla tv mi sento spremuto come un limone, ti danno il ruolo di padre della protagonista della fiction e poi alla terza puntata ti fanno secco con un infarto e sparisci dallo schermo. In teatro tu sei protagonista sempre, qualsiasi sia il tuo ruolo tu sei lì dall’inizio alla fine, senti che dai il tuo contributo all’opera rappresentata. Non rinnego niente delle fiction fatte ma confesso di averle fatte solo per il gusto di stare davanti alla macchina da presa.”

Attualmente è in tour nazionale con < Il delitto di via dell’Orsina > è corretto?
“Si, un testo molto divertente di Eugène-Marin Labiche diretto da Andrée Ruth Shammah, dove un frainteso iniziale scatena situazioni esilaranti che fanno ridere molto il pubblico.”

Lei preferisce ruoli brillanti o tragici?
“In pratica mi chiede di scegliere tra Re Lear e La Cicogna Si Diverte quindi la risposta esatta dovrebbe essere dipende: dipende da chi la dirige e da come la dirige. Senza dubbio mi piace sentir ridere, la risata del pubblico è importantissima. Far ridere è una missione e farlo con eleganza, senza modi sguaiati è un gran risultato. Certo ammetto che anche un bel Re Lear ha la sua importanza ma lo ha soprattutto nella fase delle prove, che sono importanti perché arricchiscono l’attore.”

Di base preferisce far ridere?
“È proprio nella tradizione di famiglia il fatto di far ridere, mi è stato passato da mio padre assieme a quegli altri cromosomi che tanto mi hanno fatto chiamare per anni dalla gente il figlio di Dapporto anziché col mio nome. Ma che devo dirle, me ne son fatto una ragione e credo di aver mostrato le mie capacità al di là di quel che mi è stato passato per via genetica. Che io abbia un linguaggio del corpo che ricorda quello di mio padre è indiscutibile ma che posso farci? Probabilmente capiterà pure tra lei e suo padre quindi sa qual è la conclusione?”

No, mi dica, qual è?
“Facile: bisogna prenderla con ironia!