IL SENSO DI COLPA DEL SOPRAVVISSUTO

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Quando eventi di catastrofici comportano la morte di un gran numero di persone (o comunque sopraggiunge la morte di una persona cara), accade che tra i sopravvissuti si manifesti la “Sindrome del sopravvissuto”, ovvero un trauma psichico legato all’ angosciosa domanda “Perché gli altri sono morti ed io no?”.

senso di colpa
Dottor Riccardo Coco
Psicologo – Psicoterapeuta

La conseguenza per il sopravvissuto è un lacerante senso di colpa per il fatto di essere rimasto in vita mentre l’altro è invece morto. Ne consegue che nella pratica clinica sia comune riscontrare tale sentimento come conseguenza di lutti familiari. Meno ovvio, ma altrettanto comune, è riscontrarlo nelle dinamiche familiari, laddove non è conseguenza di situazioni di lutto: si parla infatti di “senso di colpa del sopravvissuto” anche in quelle situazioni dove una persona si deprime e si sente in colpa se sente di aver ricevuto più dei familiari, di essere stato per qualche motivo più fortunato dei fratelli o dei genitori, o di avere conquistato di più nella vita.

Lo psicoanalista Modell (1971) sosteneva che le persone hanno “…un inconscio sistema di contabilità morale, cioè un sistema che tiene conto della distribuzione del “bene” disponibile all’interno di una famiglia nucleare (come se “lo stare bene” fosse una quantità finita che deve essere equamente distribuita tra i membri familiari), così che l’attuale destino degli altri membri della famiglia sarà determinato da quanto più è grande il “bene” che uno possiede. Se la sorte è stata severa con gli altri membri della famiglia, il “superstite” può provare senso di colpa, come se avesse ottenuto più di quella che è la sua quota di bene”. E pertanto – e questa è la conseguenza patologica e disfunzionale di questo modo di pensare che va trattata in psicoterapia – egli sarà portato a punirsi per le cose belle ottenute dalla vita (finendo per fallire, autosabotarsi e “perdere” tutte le conquiste ottenute) o a rinunciarvi se può ottenere qualcosa che gli altri membri familiari non hanno e lui potrebbe avere. Dunque, spinto dal senso di colpa, potrà rinunciare ai successi lavorativi, alla felicità rispetto a realizzazioni familiari e personali, al vivere in un posto lontano tanto desiderato, ad avere un buon reddito economico, etc. insomma a tutte quelle “cose”, quegli obiettivi di vita e realizzazioni, che in quella famiglia o contesto culturale sono considerate “cose belle”; perché la sua mente pensa che ciò sarà automaticamente a spese di genitori, fratelli, partner, etc. che non possono accedere o non hanno potuto accedere nel corso della loro vita meno fortunata a tali “benefit”. Come se, appunto, realizzare i propri desideri nella vita ed essere felici, o meglio, più felici dei familiari che non possono o non hanno potuto esserlo per varie e diversificate ragioni, fosse una colpa.

Si può intuire come questo modo di ragionare sia disfunzionale conducendo ad una vita “bloccata”, che porta a sentimenti depressivi, di fallimento, rabbia e vuoto. Una vita vissuta all’insegna del “sacrificio” e sotto l’egemonia del proprio tirannico senso di colpa. Per fortuna, tuttavia, questo masochistico modo di pensare (causa di un “rigido Super-Io”, come probabilmente direbbe il noto psicoanalista Sigmund Freud), può essere modificato, magari attraverso la faticosa esperienza di una psicoterapia, ma può essere modificato.

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