Il realismo storico di Aldo Moro

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Nel 41° anniversario della morte dello statista, ripercorriamo alcune sue interessanti teorie politico filosofichedi Antonio Calicchio

Le seguenti riflessioni sono scaturite dalla lettura delle Lezioni di Filosofia del Diritto, svolte, da Aldo Moro, presso l’Università di Bari, rispettivamente nel 1944-45, su Il Diritto e, nel 1946-47, su Lo Stato, ripubblicate dalla Fondazione Aldo Moro.

Nel 1940, a 24 anni, Moro aveva ottenuto l’incarico di Filosofia del Diritto, succedendo a Guido Gonella, sulla cattedra che era stata tenuta da Michele Barillari, per più di dieci anni, dalla fondazione dell’Università, nel 1925, sino al 1938. Alla fine del terzo anno di insegnamento, il giovane docente aveva fatto apparire, nel 1943, un volume di dispense, intitolato Lo Stato e recante per sottotitolo: Corso di Lezioni di Filosofia del Diritto tenute presso la R. Università di Bari nell’a.a. 1942-43. Sebbene, sotto il titolo, appaia la frase di rito “raccolte a cura e per uso degli studenti”, tuttavia chi ha esperienza delle dispense raccolte dagli studenti – anche i più diligenti – non ha alcun dubbio che il testo sia stato scritto tutto di pugno del docente, tanto è corretto nella forma, ordinato nella esposizione e preciso nel contenuto. Avverto che il testo delle lezioni del corso 1946-47, ora pubblicato col titolo Lo Stato, riproduce questo primo volume di dispense, salvo due capitoli iniziali, Introduzione e Oggetto e metodo della Filosofia del Diritto, e due capitoli finali, La guerra e Stato e Chiesa. Questa avvertenza riveste importanza in quanto serve ad anticipare, di quattro anni, le riflessioni di Moro sullo Stato, particolarmente sui rapporti fra società e Stato, e oltretutto a situarle in un periodo in cui il fascismo era ancora al potere. Che questo corso sia stato ripetuto nel 1946-47 – quando ormai il regime fascista era caduto e il Paese si stava dando una Costituzione democratica, e lo stesso Moro vi recava il suo contributo personale, come deputato all’Assemblea costituente – dimostra che il giovane studioso non aveva atteso la caduta del regime per formarsi liberamente un proprio pensiero politico, e che anzi si era preparato per il momento in cui ciascuno avrebbe dovuto assumersi le proprie responsabilità, dopo la catastrofe percepita come ineluttabile ed imminente. E chiunque voglia studiare l’opera politica di Moro non può prescindere da questo corso sullo Stato che può essere considerato come il primo, già quasi tutto formato, consistente ed articolato, abbozzo del pensiero maturo.

Non è necessario rammentare che furono proprio quelli, gli anni cruciali per la nuova generazione che ormai aveva preso coscienza della crisi dello Stato fascista, attraverso gli orrori di una guerra di aggressione combattuta al servizio di Hitler, ed aveva iniziato a discutete liberamente ed appassionatamente i grandi temi, che il fascismo aveva messo all’indice, della libertà, della democrazia e del socialismo. E quale migliore occasione per affrontare l’analisi e la discussione di questi temi se non un corso di lezioni universitarie che era molto meno esposto agli sguardi indiscreti dei censori o delle spie che non un qualunque scritto di giornale o di rivista?

Non è il caso di entrare nei dettagli in questa mia rapida veduta d’insieme, ma mi preme sottolineare che, il 13 marzo 1947, Moro, che aveva partecipato alla elaborazione del progetto di Costituzione come membro della prima sottocommissione, della commissione dei Settantacinque, presieduta dall’on. Ruini, tenne il suo primo ampio discorso dinanzi all’assemblea. Solennemente, e richiamandosi alla lotta antifascista, esordì affermando che la grande impresa cui i costituenti erano stati chiamati era quella di costruire il nuovo Stato, e costruire il nuovo Stato, aggiunse “se lo Stato è – come certamente è – una forma essenziale, fondamentale, di solidarietà umana”, significa “prendere posizione intorno ad alcuni punti fondamentali inerenti alla concezione dell’uomo e del mondo”. Manifestando, già allora, la sua più profonda vocazione che fu sempre quella di individuare le grandi convergenze ideali fa gli uomini di buona fede e di buona volontà piuttosto che quella di gettare i semi della discordia, parlò di un comune substrato ideologico, “nel quale tutti quanti noi uomini della democrazia possiamo convenire” perché “si ricollega alla nostra comune opposizione di fronte a quella che fu la lunga oppressione fascista dei valori della personalità umana e della solidarietà sociale”. Contro l’on. Lucifero, che avrebbe voluto una Costituzione non antifascista, ma afascista, disse che l’antifascismo era non una ideologia nel senso deteriore della parola, ma “una felice convergenza di posizioni”. E rifacendosi al discorso di La Pira sul pluralismo, commentò e contribuì a fare approvare l’art. 2 nella sua attuale formulazione, dicendo, peraltro: “Sta di fatto che la persona umana, la famiglia, le altre libere formazioni sociali, quando si siano svolte sia pure col concorso della società, hanno una loro consistenza e non c’è politica di Stato veramente liberale e democratica che possa prescindere da questo problema fondamentale delicatissimo di stabilire, fra le personalità e le formazioni sociali, da un lato, lo Stato, dall’altro, dei confini, delle zone di rispetto, dei raccordi perché, quando noi parliamo di autonomia della persona umana, evidentemente non pensiamo alla persona isolata nel suo egoismo e chiusa nel suo mondo … Vogliamo che queste realtà convergano pur nel reciproco rispetto, e nella necessaria solidarietà sociale”. Riprendendo il problema nella seduta del 24 marzo, quando l’articolo fu approvato, disse: “In questo modo noi poniamo un coerente svolgimento democratico, ponendo a base del suo ordinamento il rispetto dell’uomo guardato nella molteplicità delle sue espressioni, l’uomo che non è soltanto individuo, ma è società nelle sue varie forme, società che non si esaurisce nello Stato. La libertà dell’uomo è pienamente garantita, se l’uomo è libero di formare gli aggregati sociali e di svilupparsi in essi”.

Tra il suo insegnamento accademico e la sua azione politica non vi era stata soluzione di continuità. Moro si accingeva a trasfondere, nell’azione politica quotidiana, alcuni principi generali e direttivi di cui si era alimentato nella sua formazione religiosa e morale giovanile, e a cui resta fedele nella sua lunga milizia. Milizia troncata crudelmente sullo sfondo dello scenario drammatico davanti a cui si agita il grande conflitto – alla comprensione del quale, aveva aperto la mente, sin dagli anni giovanili – tra la società e lo Stato, tra la persona umana e il potere.

Tuttavia, nel corso degli anni, diversi luoghi comuni sono stati collegati alla memoria di Moro: un Moro artefice del compromesso storico e cedevole filocomunista, come iconicamente rappresentato nella statua eretta, anni fa, nella sua natia Maglie, con in tasca l’Unità. Ed invece, emerge, in lui, segretario Dc, presidente del Consiglio, ministro degli Esteri, un’azione diversa, realista e antiretorica, misurata sul terreno italiano nelle varie fasi della sua storia, dalla ricostruzione alla crisi degli anni Settanta.

Un Moro che, nel complesso panorama, nazionale ed internazionale, ed avendo di fronte una macchina politica come il Pci, si muove con abilità, anche se con precauzione. Un Moro che deve affrontare, in una Repubblica abitata da oligarchi (gruppi di potere e di pressione, partiti, grandi e piccoli, e correnti nei partiti), le difficoltà a far espandere ed esprimere la democrazia, ma sempre coltivando una visione sistemica delle istituzioni, non chiudendosi nella logica di una singola parte.

Le molte citazioni di diari e memorie di politici pubblicati in questi anni: da Nenni a Fanfani, soprattutto, ma anche Rumor, Barca, Natta e diversi altri, mostrano un Moro giudicato quotidianamente nel suo operato politico e nel suo stile personale. La vicinanza ai socialisti e la “strategia dell’attenzione” posta in atto verso i comunisti dal momento in cui, 1969, Berlinguer diviene vice segretario Pci, sono i due nodi, non antinomici, dell’azione di Moro. Malgrado le apparenze di un “vento della storia” che pareva dare allora ragione alla prospettiva propria del Pci, può dirsi tuttavia che Moro non sia mai venuto meno alla critica proprio di quella prospettiva, giudicandola scarsamente realistica, armata di troppa iattanza e sicumera “egemonica”, proprio nel momento stesso in cui ne constatava però anche gli elementi positivi, oltre a quelli oggettivamente di forza socio-politica.

L’ultimo articolo, destinato a Il Giorno, che Moro stava correggendo, in macchina, il giorno in cui venne rapito, in via Fani, conteneva la risposta civile alle diverse tesi sostenute da due esponenti comunisti di diversa generazione, Amendola e Petruccioli, a proposito del ’68, riesprimendo il suo pensiero sulla storia repubblicana, così da rivendicare la giusta prospettiva in cui aveva sempre operato la Dc e che il Pci non poteva che riconoscere nella sua interezza. A seguito della sconfitta del 18 aprile ’48, la sinistra, per Moro, aveva saputo riconquistare un suo spazio ed una sua vitalità. La politica di centro-sinistra, opera principale e prospettiva costante in Moro, aveva rappresentato, pur differenziando, dividendo la sinistra italiana, un allargamento della democrazia nel Paese, che consentì poi anche il ’68 giovanile ed operaio, parte di un fenomeno mondiale: fenomeno di speranze e di rottura di vecchi schemi che Moro aveva cercato di capire, interpretare, incanalare e, in parte, contenere.

Concezione di ampio respiro, questa, che ci consegna un Moro, nel suo ultimo scritto in libertà, tendente al dialogo nella democrazia, ma con una chiara fermezza. Fermezza che, come presidente del Consiglio nazionale Dc, aveva, nei mesi precedenti, autorevolmente manifestato, in una lunga azione di convincimento, ai suoi colleghi di partito, poco elastici a fronte delle nuove complessità dell’ora. In un clima dominato da diffidenze, americane, europee, sovietiche, da denigrazioni di destra e arroganze intellettuali di sinistra, in una sorta di piano inclinato verso un orizzonte che andava restringendosi.

Il ruolo finale di Moro, dal luglio ’77, diverrà quello non già di creatore di nuovi equilibri, ma di negoziatore di una tregua armata, con un allargamento di una maggioranza al Pci: nulla di più essendo consentito nella difficile situazione italiana. Ciò non per difendere la Dc, ma per salvare nel Paese, col più ampio consenso democratico, i frutti maturati in quegli anni pur difficili: aumento dell’occupazione, ricostituzione delle riserve, attivo della bilancia valutaria, diminuzione dell’inflazione. Nella Dc, col discorso ai gruppi parlamentari del 28 febbraio ’78, Moro era riuscito a domare ogni dissidenza significativa. Il 16 marzo, un Pci molto scontento avrebbe deciso di entrare in maggioranza alle condizioni severe di Moro. Lo farà, superando ogni dubbio, alla notizia, quella mattina, del rapimento di Moro e del massacro della sua scorta, da parte delle Br.