I giovani e le baby gang “Indignarsi non basta”

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Personalmente, ritengo che i ragazzi, gli adolescenti, i bambini siano lo specchio degli adulti di cui sono circondati.

di Vincenza Palmieri

In queste ore, a commento dei dati ufficiali relativi ai giovani che appartengono alle cosiddette “baby gang”, si è scatenato un interesse altissimo da parte dei Media e della Società Civile.

Ma cosa troviamo sui giornali, di fatto? Racconti di vita: come si riuniscono, dove si incontrano; chi sono i bersagli, quali le vittime preferite. E cosa emerge, osservando i tratti comuni alle singole storie, così come quelli invece profondamente differenti tra loro? Che il fenomeno è assolutamente trasversale: non appartiene solo ai ceti più umili, “bassi”, a ragazzi stranieri – come si poteva pensare – bensì, anche alle cosiddette “famiglie bene”, come dimostrano alcuni fermi eccellenti.

La cronaca anche più antica – pensiamo al caso Colasanti-Lopez, il delitto del Circeo – ci ricorda che non c’è distinzione di classe sociale quando il gruppo si fa branco.

Dopo le attività di osservatorio, dunque, ci aspettiamo quelle di laboratorio.

Sul filo, oggi, corre veloce la richiesta: “Che consigli possiamo dare alle famiglie che hanno un problema di questo tipo al proprio interno”? Perché è chiaro che tutto il nucleo si configuri come famiglia fragile, a quel punto, con un problema; e che, quindi, debba essere aiutata.

Personalmente, ritengo che i ragazzi, gli adolescenti, i bambini siano lo specchio degli adulti di cui sono circondati. Non mi riferisco, in questo caso, alla cerchia stretta all’interno della casa, ma alla società intesa in senso ampio. Se guardiamo quali modelli abbiano questi ragazzi, non resta spazio per meravigliarci se poi si riuniscono in dinamiche di guerra tra bande. Basti pensare alle cosiddette “dinamiche da stadio”, negli aspetti che meno di tutti attengono ai principi dello sport. Se lo sport diventa il teatro della violenza – e non il baluardo del fare insieme, non la scialuppa della legalità – che messaggio inviamo ai nostri ragazzi? Mandiamo i bambini a fare sport, da piccoli, non solo perché è salutare, ma anche perché riteniamo che sia la strada per insegnar loro il rispetto delle regole e dei valori.

E guardiamo anche alle Istituzioni. Che modello trasmettono, ad esempio nelle stesse sedi parlamentari? Grida, zuffe, insulti, aggressioni verbali e fisiche. Senatori allontanati dall’aula con la forza, Onorevoli sollevati di peso e trascinati lontano dall’avversario (politico). Dobbiamo augurarci, in questi casi, che i nostri giovani non siano interessati al “dibattito” parlamentare, perché quale messaggio arriverebbe loro?

Quando i ragazzi assistono a tutto questo, cosa stiamo facendo? Stiamo esprimendo modelli educativi. Mentre non forniamo loro alcuna alternativa, possibile né virtuosa. La pratica attiva dello sport ha un costo importante, i centri sociali e culturali non sono così curati e propositivi dal punto di vista dei contenuti, vietiamo ai bambini di giocare negli spazi comuni, cortili, spiagge e prati. Quindi i ragazzi non hanno luoghi in cui vivere un proprio spazio. E anche a scuola, l’inclusione, l’educazione di genere e alla pro-socialità sono in una fase solo embrionale.

E, allora, dove si trova la Famiglia, in tutto questo? Si trova al centro di un grosso problema. Perché la Famiglia deve essere perfetta: la Società no.

E, dunque, la Famiglia deve svolgere un doppio mandato: quello di educare i figli, ma anche quello di tutelarli da ciò che il mondo degli adulti spesso trasmette loro. E, cosa succede, invece? Succede che la famiglia diventa “sbagliata”. Perché non è riuscita a fare muro, in maniera invalicabile, contro quell’ondata di violenza presente ovunque.

Cosa ha risposto la Società Civile fino ad ora?

Ciò che è sotto gli occhi di tutti è che i genitori vengono ritenuti i diretti responsabili delle “malefatte” del figlio minore. Quindi pagano i danni da lui commessi come se ne fossero gli artefici. Non solo: dopo che ha pagato tali danni, la famiglia viene ritenuta inidonea perché non ha saputo educare e controllare il figlio. Sottoposta ad una lunga valutazione e ad una sequela di test – ad opera dell’ormai ben nota Filiera Psichiatrica – risulta inidonea. E il bambino, sentenziato, diagnosticato irrecuperabile, passa dalle dinamiche violente delle baby gang a quelle delle strutture ad alto contenimento.

A cosa serviranno i dati forniti alla collettività in questi giorni, dunque? Temo che tale fotografia numerica del fenomeno servirà solo a creare nuove misure autoritative. A puntare il dito contro le famiglie e contro i ragazzi.
Famiglie inidonee e incapaci, bambini e ragazzi collocati in strutture extra-familiari in cui – le statistiche vanno utilizzate sempre, allora – non vengono di certo salvati. Perché sono luoghi che amplificano il percorso di ribellione, non compreso ma nel caso sedato. E in cui la risposta è solo una: “questo ragazzo va mandato in Psichiatria”.

Le Famiglie, invece, possono essere aiutate. E non con un mero assegno economico, come secondo recenti proposte. Vanno aiutate con interventi, progetti, sostegni e soluzioni. Aiutate come nucleo, nel ritrovare la propria unicità. Questa è la tutela delle Famiglie, questa è la tutela dei Minori.

Aiutiamo le Famiglie a casa loro.

Vincenza Palmieri