Dalla “Liberazione” verso il “Lavoro”, fondamento dello Stato democratico italiano

0
2363

di Antonio Calicchio

In quasi tutti i Paesi, le grandi feste nazionali restano fisse per secoli. Gli Americani festeggiano l’Indipendenza e il Memorial Day. In Francia si continua a celebrare il 14 luglio, la presa della Bastiglia, cioè l’inizio della Rivoluzione, della liberazione da ogni  tirannia. Ed invece, in Italia, le feste cambiano in continuazione. Perché?

Perché ogni volta abbiamo eretto a festa nazionale qualcosa che, in seguito, non è riuscito ad accomunare tutti gli Italiani, né a condensare in sé significati universali.

Le feste che durano sono quelle capaci di raccogliere, di condensare, appunto, sempre nuovi significati, di diventare simboli universali, in cui ciascuno può riconoscersi.

Il 25 aprile rappresenta la ricorrenza della resa delle truppe fasciste e tedesche agli alleati e ai partigiani, la “liberazione” dal nazi-fascismo. E’ da tale vittoria che è sorta l’Italia democratica. I vincitori di quei giorni hanno formato la classe politica che ha governato il Paese nel periodo successivo. Ogni istituzione ricorda la fase straordinaria delle sue origini e vi trova il suo fondamento di legittimità. La classe politica italiana, nei momenti difficili, quando le divisioni diventavano troppo forti, si è sempre riconosciuta nei “valori della Resistenza” e ha ritrovato la sua unità.

Mi auguro che noi tutti riusciamo a conferire una valenza universale a questa data. Il ‘900 è stato dominato dalle guerre, dal fanatismo e dal totalitarismo. Non solo il fascismo italiano e il nazismo tedesco, ma anche il comunismo sovietico. Se intendiamo recuperare il senso profondo del 25 aprile, allora dobbiamo celebrare con esso il ripudio di tutti i totalitarismi, di tutti i regimi illiberali, di ogni forma di intolleranza politica. Farne la festa comune della democrazia e della libertà.    E da questo evento è scaturita, da un lato, la scelta referendaria degli Italiani per la “repubblica” e, dall’altro, la conseguente elaborazione ed emanazione della Costituzione da parte dell’Assemblea Costituente. Costituzione che, in quanto cardine dell’ordinamento, esprime, negli articoli iniziali, i principi fondamentali cui l’ordinamento stesso si ispira, fra i quali principi si rinviene quello democratico e il principio lavorista, sanciti al co. I, dell’art. 1, in cui si legge che “l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”. Va notato che detti principi non devono essere considerati come mere espressioni di ideologie politiche o, al più, come semplici orientamenti per il legislatore ordinario. Certo, in essi riecheggia pure l’esito storico del compromesso costituzionale realizzatosi fra le correnti politiche ed ideologiche – cattolica, socialcomunista, laico-liberale – presenti nell’Assemblea: tant’è vero che l’attuazione dello spirito dei principi fondamentali nell’attività legislativa e amministrativa rappresenta, anche oggi, un impegno programmatico per le forze politiche. Ma ad essi, in quanto incardinati in un testo giuridico qual è la Costituzione, vanno riconosciuti precisi significati e valori giuridici. Assume rilevanza, al riguardo, la circostanza che l’Assemblea preferì includere i principi nel testo costituzionale e non in un separato preambolo di incerta qualificazione. Ed in particolare, sono tre le prospettive in cui si esplica il valore giuridico dei principi nella Costituzione: a) costituiscono orientamento e vincolo per l’interprete delle altre norme giuridiche, costituzionali od ordinarie; b) in quanto esprimono valori inderogabili dell’ordinamento, sono un limite implicito al potere di revisione costituzionale; c) la Corte costituzionale può dichiarare illegittimi e, dunque, espungere dall’ordinamento leggi ordinarie ed atti aventi forza di legge in contrasto con uno o più dei principi fondamentali.

Quanto al citato co. I, dell’art. 1 della Costituzione, è da sottolineare che democrazia vuol dire etimologicamente governo del popolo, nel senso che è quest’ultimo l’artefice e il protagonista delle decisioni politiche fondamentali riguardanti la collettività nazionale. Ma il significato etimologico della parola “democrazia” non aiuta, di per sé, a capire quale tipo di regime politico la Costituzione abbia inteso instaurare: ed infatti, “governo di popolo” può aversi – in linea teorica – così in una democrazia totalitaria, come in una pluralista, così in una democrazia protetta, come in una aperta. Democrazie totalitarie possono essere definiti i regimi politici che non ammettono la competizione tra le varie forze ideologiche e politiche, essendo fondati sull’egemonia di un’unica forza politica e di un’unica ideologia. Democrazie pluraliste sono, per converso, quelle basate sulla libera competizione per il raggiungimento del potere tra forze e ideologie politiche di diverso orientamento: si pensi all’Italia e, più in genere, alle liberaldemocrazie dell’Occidente. Nell’ambito delle liberaldemocrazie, si definiscono protetti quei regimi politici che, pur fondandosi sulla libera competizione di diverse forze politiche, escludono dal novero dei partiti costituzionalmente legittimi quelli che “per le loro finalità o per il comportamento dei loro aderenti si prefiggono di danneggiare o eliminare l’ordinamento fondamentale democratico e liberale (art. 21 della Legge fondamentale della Repubblica tedesca, quale democrazia protetta). Sono aperti – e non protetti – quei regimi politici liberaldemocratici che non pongono limiti – tranne il divieto dell’uso e dell’incitamento all’uso della violenza quali strumenti dello scontro politico – alla competizione politica e ideologica (rientra, fra questi, l’Italia, ove anche il divieto di ricostruzione del partito fascista, disposto dalla XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, non ha trovato applicazione). Pertanto, il sistema politico italiano può qualificarsi come una democrazia pluralista e aperta. Le inderogabili “regole del gioco” su cui si radica tale regime politico sono state enumerate da Bobbio nei seguenti termini: a) tutti i cittadini, che abbiano raggiunto la maggiore età, senza distinzione di razza, di religione, di condizione economica, di sesso, etc., devono godere dei diritti politici; b) il voto di tutti i cittadini deve avere peso uguale (cioè deve contare per uno); c) tutti i cittadini che godono dei diritti politici devono essere liberi di votare secondo la propria opinione formatasi quanto è più possibile liberamente; d) devono essere liberi anche nel senso che devono essere posti nelle condizioni di avere reali alternative di scegliere fra soluzioni diverse; e) sia per le deliberazioni collettive, sia per elezioni dei rappresentanti vale il principio della rappresentanza numerica, anche se possono essere stabilite diverse forme di maggioranza (relativa, assoluta, qualificata), in determinate circostanze preventivamente stabilite; f) nessuna decisione presa a maggioranza deve limitare i diritti della minoranza.

Per quel che concerne il principio lavorista, preme rilevare che, l’essere l’Italia una Repubblica fondata sul lavoro, significa in negativo – in implicita, ma chiara contrapposizione ai principi liberali dell’Ottocento – che il nostro sistema democratico non è basato sul censo o su condizioni sociali acquisite ereditariamente. In positivo, definendo l’Italia una “Repubblica fondata sul lavoro”, la Costituzione ha inteso attribuire al lavoro un valore primario dell’ordinamento, per un verso, considerandolo come un momento essenziale di realizzazione della persona umana; per un altro, come attività cui il cittadino è tenuto per concorrere “al progresso materiale e spirituale della società” (art. 4, co. II). Più in generale, l’affermazione del principio lavorista è stata ispirata dalla esigenza di integrare la sovranità popolare – fondamento politico della democrazia – col riconoscimento del suo radicamento sociale. E così, alla democrazia italiana è stato demandato il compito storico di immettere, nella pienezza della vita del Paese, le classi lavoratrici, rimaste, troppo a lungo, estromesse, anche prima della parentesi fascista, dai circuiti istituzionali e politici, nonché dall’organizzazione socio-economica. La formula dell’art. 1 ha il compito di “assegnare al lavoro la funzione di supremo criterio valutativo della posizione da attribuire ai cittadini nello Stato, essendosi ritenuto il più idoneo ad esprimere il pregio della persona e … a farle assolvere il debito contratto verso la società” (Mortati); e, quindi, l’art. 1 sta ad indicare che “nella nostra Repubblica non si dovrebbero riconoscere privilegi economici, perché … il solo lavoro dovrebbe essere il titolo di dignità del cittadino” (Giannini). In quanto valore primario dell’ordinamento, il lavoro gode di un’ampia tutela da parte di numerose norme costituzionali. E la Corte costituzionale – come affermato nella sent. n. 45/65 – potrebbe, dal canto suo, dichiarare illegittime leggi ordinarie che pongano o consentano di porre limiti discriminatori al diritto al lavoro o che lo rinneghino. A prescindere da questi profili operanti sul piano formale, su quello sostanziale si è però sostenuto che il diritto al lavoro è una “formula truffaldina” poiché non garantisce una autentica pretesa ricorribile dinanzi ad un giudice: ed invero – si è soggiunto – “nessun disoccupato riuscirà mai ad ottenere lavoro rivolgendosi davanti ad un giudice come se rivendicasse un suo diritto” (Rescigno).

 

Tuttavia, va, ancora una volta, rimarcato che il lavoro è il fondamento dello Stato democratico italiano e, in quanto tale, è uno dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale. Il lavoro, cioè, oltre che essere fonte di benessere individuale e sociale, rappresenta il più nobile ristoro dello spirito. E dalle antiche età ai nostri giorni, si è sempre sentita l’alta poesia di questo glorioso esercizio, che è anche tanta parte della serenità e della gioia delle nostre energie spirituali.

Vi è, quindi, nel nostro lavoro, una ricompensa ben più elevata di quella che serve alla vita pratica, vi è l’appagamento alle nostre inquietudini, la distrazione agli assilli che da ogni parte ci provengono, la speranza e il sogno per un nuovo futuro, la fortificazione del corpo e dello spirito.

L’inoperoso affonda miseramente nel tedio di una esistenza vana a sé e agli altri, diviene insofferente di tutto, stanco e proclive al vizio: è una minaccia e un pericolo non solo per la felicità e onestà individuale, ma per il benessere perfino e la civiltà della nazione, per la quale egli costituisce un inutile peso. I Paesi più rigogliosi e più sani, dal punto di vista morale, sono quelli in cui la disoccupazione è ridotta al minimo e la persona ricava, dalla sua attività, quanto necessario per sé e per i suoi: vi è un senso di esuberanza, una concezione ridente della vita che origina proprio da quel fervore in cui il lavoro, adeguatamente compensato, assicura vigoria fisica e spirituale, prosperità e tranquillità. E se in Italia supereremo l’attuale crisi della disoccupazione, avremo allora risolto il più grave problema che ci attanaglia e che mina la sanità morale del nostro popolo. Quando in ciascun nucleo familiare entrerà il benefico sorriso del lavoratore soddisfatto, allora si placheranno gli scontenti, si eviteranno le facili deviazioni morali, si allevieranno gli urti di classe; e, dalla famiglia lieta e attiva, risorgerà la società che di quella è l’aspetto più ampio e interessante. “Date un palmo di deserto ad un lavoratore onesto e guidato dall’intelligenza, e in breve questi ve lo cambierà in un giardino fiorito; e al contrario, date un lembo di terra ricca ad un ozioso della mente e del braccio, ed il giardino non tarderà ad inaridirsi come un deserto” (Proudhon).