CERVETERI: L’OMINO DEI CHICCHI DI GRANO

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pettirosso

Tratto da una storia vera, il “Seminatore”, di Dario Rossi.

Il Seminatore

Era solo lui.

Nel piccolo borgo ‘cerveterano’ appena animato da trecento anime, era solo lui: l’omino dei chicchi di grano. Non aveva un nome. Lo chiamavano “il seminatore”. E solo lui aveva il dono, l’innata magia dell’arte della semina.

Già avanti con gli anni, viveva con la madre quasi centenaria, in quella parte di borgo dove le case non conoscevano il sole, e dove il vento faceva fatica a penetrare malgrado la spinta irruente e testarda.

La moglie Martina, donnetta minuta, esile come un candido giunco di padula, dai grandi occhi azzurri, gli era morta di tubercolosi. Lui aveva sprangato tutto l’uscio tarlato della sua casupola ed era andato nuovamente a vivere con la vecchia madre.

La vecchia madre lo aveva accolto in silenzio, dentro un’abbraccio in cui palpitavano brividi d’affetto e di pietà, e dove quel “non parlare” e “il chiudere gli occhi” sussurravano sogni di una bontà infinita.

Dal quel giorno aveva spento il sorriso. Ma nel fondo delle sue pupille, a guardarvi bene, profondamente, dentro un nero-mora-di-bosco, brillava incontrastato un flebile lumino di vitalità.

Nel piccolo borgo tutti conoscevano l’innata magia dell’arte della semina. E quando nel livido mese dei morti dai freddi, uggiosi mattini incappucciati di brina, la coppia di bovi tirando, fumigante, l’aratro, marezzava di solchi profondi i poderi, era lui, lui solo, il “seminatore”, a spargervi con gesti sacrali i chicchi puntati del grano.

Non era solo quando seminava.

A mano a mano che i solchi nerastri si vestivano col velario dei chicchi, crocchi di passeri affamati, cutettrole, saltimpali, esili forasiepe, danzavano tra i solchi cobandosi del generoso dono. E lui li lasciava fare. Sapeva che per essi l’inverno sarebbe stato lungo, duro, inclemente…

Quel giorno di santa Caterina, forte di vento e di nuvole, seminava con il solito gesto cadenzato, la sacca del grano a tracolla, la tribù dei pennuti a beccucchiare tra le rughe profonde. Sentì un battere d’ali affrettato, e un esserino dal piumaggio olivastro, il collo, la gola, il petto spalmati di rosso, si posò senza nessun segno di timore sulla sua spalla. Un pettirosso! Fu sorpreso da tanto coraggio e, per la prima volta dopo la polvere d’anni, si aperse al brillìo del sorriso.

Lentamente fermò il braccio, aprì il ruvido pugno dove erano chiusi i chicchi da spagliare tra i solchi aspettando, con il cuore in gola, la reazione del timido uccello all’invito.

Il pettirosso discese, saltellando, lungo il braccio; quindi passandosi sul suo pollice iniziò a ingurgidare i semi dorati. “Com’è leggero!” – pensava il seminatore – “É più leggero che una spora di maggio!”.

Sapeva della leggenda. Sapeva che quel rosso che tingeva le penne dell’esile uccello era il sangue colato da una spina della corona di dolore che cingeva il capo di Gesù crocifisso, e che lui, coraggiosamente, con la forza del robusto becco aveva cercato inutilmente di svellere.

Lo guardava estasiato. E sulle sue pupille, nere come mora-di-bosco, il flebile lumino di vitalità che vi si leggeva nel fondo, guizzò come ravvivato dal vento. Finito di beccare, il pettirosso aprì le ali sparendo tra il rosume di un greppo.

Per tutto il periodo della semina, ed anche per gli anni a venire, durò l’amicizia tra il pettirosso e il “seminatore”.

I mesi per la spargitura dei chicchi si susseguirono, anno dopo anno, tra giorni caduchi di sole, nebbie voltolanti sulle creste dei solchi, venti profumati di pioggia. E sempre lui, l’omino dei chicchi di grano dalla sacca a tracolla e dal gesto sacrale, alto sull’onde dei campi. Ed il pettirosso.

Fino a quando, un giorno di fine novembre che il sole sembrava non scendere mai oltre il dorsale dei monti, trovarono “il seminatore” morto, disteso sopra un soffice letto di terra. Accanto a lui, un pettirosso che non voleva volare.

Dario Rossi