Tullio Gregory, lo storico della filosofia

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di Antonio Calicchio

Esperto del pensiero medievale e del filone critico libertino, attento ai dettagli filologici e amante della buona tavola, il filosofo e storico della filosofia Tullio Gregory, scomparso il 2 marzo scorso, all’età di 90 anni, era una personalità poliedrica. Presso il grande pubblico era noto soprattutto per il manuale scolastico di storia della filosofia da lui realizzato con Francesco Adorno e Valerio Verra. Ed aveva vissuto anche una esperienza al vertice della Rai, quale membro del consiglio d’amministrazione c.d. dei professori. Tuttavia, il suo impegno di maggior rilievo era stato quello dedicato all’Istituto del lessico intellettuale europeo e storia delle idee (Iliesi) che egli aveva fondato, nel 1964, unitamente a Eugenio Garin e Tullio De Mauro, nell’ambito del Consiglio nazionale delle ricerche, per, poi, dirigerlo fino al 2007: un’impresa da cui sono scaturiti lavori per la conoscenza, sul piano linguistico e filologico, del patrimonio bibliografico, umanistico e filosofico prodotto lungo i secoli nel nostro continente. Nato a Roma, nel 1929, Gregory, da ragazzo, aveva conosciuto Ernesto Buonaiuti, il carismatico ex sacerdote modernista, studioso del cristianesimo antico, osteggiato dalla Chiesa cattolica e perseguitato dal fascismo. Con lui aveva mosso i primi passi nello studio della tradizione religiosa, quindi, si era specializzato in campo filosofico. Ma al tema delle credenze sovrannaturali aveva sempre riservato grande attenzione anche in età avanzata, pur non professando alcuna fede, come testimonia il suo saggio Il principe di questo mondo, del 2013, in cui si soffermava sulla figura del diavolo nella civiltà occidentale. Peraltro, evidenziava come la presenza demoniaca fosse cruciale per spiegare la presenza del male in un universo monoteistico retto da una divinità amorevole e misericordiosa.
Poco dopo la laurea, Gregory aveva intrapreso la sua collaborazione con l’Enciclopedia Treccani, cui era rimasto sempre legato, e agli anni Cinquanta risalgono le sue prime pubblicazioni di rilievo: Anima Mundi, del 1955, e Platonismo medievale, del 1958. Del 1961 è il suo libro Scetticismo ed empirismo sopra un autore fuori dagli schemi come il francese Pierre Gassendi, singolare figura di sacerdote e scienziato convinto di poter conciliare il culto cristiano con l’atomismo epicureo. Da quel lavoro avevano preso le mosse le sue ricerche sul libertinismo come snodo di passaggio verso la modernità, confluite in volumi come Teophrastus redivivus, del 1979, poi, Etica e religione nella critica libertina, del 1986. Nel 2016, aveva raccolto tre saggi nel libro Michel Montaigne o della modernità, sottolineando la centralità del pensatore francese che, sulla scorta delle grandi scoperte geografiche, aveva aperto la strada a una radicale riconsiderazione del destino umano: una concezione complessa che non si esauriva nell’acquisita coscienza della relatività dei valori, ma aveva chiara l’importanza del fattore religioso come fondamento di una ordinata convivenza.

Nel 1962, aveva vinto la cattedra di Storia della filosofia medievale, all’Università “La Sapienza” di Roma, ateneo dove aveva sempre insegnato e di cui era professore emerito. Ma era stato docente anche a Parigi, alla Sorbona, e presidente della Società internazionale per lo studio della filosofia medievale, oltre che accademico dei Lincei. All’impegno universitario, affiancava la passione gastronomica. Nella sua casa di Roma, oltre alla biblioteca, conservava un carrello dei bolliti coi bordi in legno, di cui andava fiero, recuperato da una trattoria emiliana in disarmo. E al Festivalfilosofia di Modena, Carpi e Sassuolo curava la sezione di “cucina filosofica”, proponendo menu sempre collegati alla tradizione. Non gradiva la ricerca di combinazioni troppo sofisticate ai fornelli: “La creatività è dote rara in cucina, come in altri campi del sapere. Se non sei Einstein, muoviti con le leggi di Newton, e non strafare”, aveva detto quasi vent’anni fa.

Nel 2011, aveva levato la sua voce a difesa della laicità dello Stato: a suo avviso, era una grave distorsione, sui temi bioetici, “accettare scelte che derivino da una particolare ideologia religiosa, trasformando posizioni teologiche in leggi ordinarie”. Insisteva anche sulla necessità di allentare i vincoli burocratici e di sottrarre l’amministrazione alle interferenze di parte della politica.

Tuttavia, l’assillo più pressante di Gregory era la decadenza dell’Italia nel settore del sapere e della ricerca. Lungi da pregiudizi verso le scienze naturali, reputava un errore trascurare le discipline umanistiche e, peggio ancora, lasciare nell’abbandono archivi e biblioteche perché “non staccano biglietti d’ingresso a pagamento”. Gestire i tesori italiani secondo una logica aziendalista gli appariva un suicidio, a lungo andare anche sotto il profilo economico. “La nostra recessione – ammoniva – è anzitutto culturale”.