La condizione delle donne raccontata attraverso la storia del parto cesareo

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Come si è passati dalla “madre albero” alla “madre vaso”

di Giovanni Zucconi

Anche se può sembrare strano, si può capire molto sulla condizione della donna nei secoli esaminando la storia del parto cesareo, ed osservando come si è evoluta nel tempo la dolorosa scelta tra la salvaguardia della vita della madre partoriente e quella del figlio che sta per nascere. Bisogna dire che per secoli il problema si era posto in modo estremamente semplificato: poiché le conoscenze mediche escludevano la sopravvivenza della madre dopo l’intervento, era possibile effettuare il taglio cesareo solo su donne morte. In queste condizioni il taglio cesareo era solo un atto quasi disperato, e per questo aveva una fortissima carica simbolica. La mitologia antica è ricca di esempi di personaggi divini o eroici nati da un parto cesareo. Chi nasceva in questo modo era definito dal diritto romano una figlio “non nato”, e già solo per questo era considerato un essere straordinario, destinato ad una futura grandezza o ad imprese prodigiose. I miti antichi raccontavano

che chi veniva al mondo in modo non naturale erano di solito le divinità, gli eroi o i grandi condottieri. Esempi che possiamo ricordare sono Scipione l’Africano, il dio Dioniso (il dio Bacco dei Romani), il dio Asclepio (il dio della medicina) e il mitico Adone. Lo stesso Giulio Cesare si diceva che fosse nato da un parto cesareo, anzi alcuni attribuiscono il nome “cesareo” proprio alla sua modalità di nascita. Ma sicuramente non è stato così. Noi sappiamo che sua madre Aurelia visse a lungo, e vide suo figlio crescere ed affermarsi, ed è quindi impossibile che Giulio Cesare sia un “non nato”. Questo esempio ci testimonia di come la nascita da un parto cesareo fosse utilizzata nell’antichità per mitizzare alcuni personaggi importanti. Da ricordare che una legge emanata dal re Numa Pompilio tra il 715 e il 672 a.C. ordinava che fosse eseguito il parto cesareo “post mortem” a tutte le donne morte poco prima che la gravidanza fosse portata a termine. Questo essenzialmente per motivi religiosi e per garantire un destino “distinto” tra la madre e il figlio non nato (morto o vivo che fosse). Questa pratica estremamente limitata e circoscritta del parto cesareo continuò per secoli, anche per l’atteggiamento della Chiesa Cattolica che, seguendo la dottrina di San Tommaso, indicava che “…nessun uomo deve uccidere una madre per poter battezzare il figlio…”. Neanche il parto “post mortem” era considerato un attività lecita. Fino alla seconda metà del XVIII secolo non si poneva il dilemma della scelta tra la salvezza della vita della madre e quella del bambino, perché era evidente chi fosse più importante tra i due. La madre era un essere umano vivo che andava tutelato, mentre il bambino nell’utero era ancona un “non nato”, la cui esistenza sarebbe stata dimostrata solo con il parto. Fino all’inizio del ‘700 la madre era più importante del figlio che portava in grembo, e possiamo utilizzare la metafora dell’albero e del frutto per rappresentare il rapporto tra che esisteva tra i due: la madre è l’albero che può fare molti frutti, ma non è detto che questi arrivino tutti a maturazione. Il centro di tutto è la “madre albero”, nessuno si sognerebbe di abbattere un albero per salvare un frutto. Questa concezione subisce un radicale cambiamento nella seconda metà del XVIII secolo, quando assistiamo ad un aumento esponenziale dei parti cesarei. Forse questo accadeva perché la medicina aveva compiuto passi da gigante e il cesareo era diventato ragionevolmente sicuro per le madri? Neanche per sogno. Quasi nulla era cambiato da quel 1581, quando il chirurgo francese François Rousset teorizzò per primo, tra lo scetticismo generale, la possibilità di un cesareo su una donna viva. La medicina non era ancora in grado di garantire la salvezza alle madri sottoposte al taglio dell’utero. Ed infatti morivano tutte o quasi. Le statistiche dei medici del tempo, sicuramente ottimistiche, erano agghiaccianti: il 60% delle madri moriva per complicazioni o per setticemia. E allora perché si facevano partorire sempre più madri con parto cesareo? Perché veniva tollerato questo massacro? La risposta è che nel frattempo c’era stato un cambiamento culturale, religioso e politico, che aveva ribaltato la gerarchia dei valori rappresentata dalla metafora dell’albero e del frutto. Dalla seconda metà del ‘700 il bambino era diventato più importante della madre, e questa non si doveva più rappresentare come un albero fruttifero, ma come un vaso nel quale era stata seminata una piantina. La donna non è più l’albero da tutelare, ma il contenitore che può e deve essere sacrificato per salvare il giovane virgulto che deve nascere. Come vedete è un mutamento culturale enorme, compiuto a spese delle donne, che rispecchia quanto stava succedendo in Occidente e all’interno della Chiesa Cattolica. Dal punto di vista religioso si andavano sempre di più affermando le correnti più radicali, che sostenevano che al figlio che era nel grembo della madre andava comunque garantito il battesimo salvifico. La madre era stata già battezzata, e con la sue eventuale morte poteva perdere solo la vita materiale, mentre il figlio non battezzato era condannato a finire nel Limbo. Ma non fu solo il mutato atteggiamento della Chiesa a condannare tante madri a morte quasi certa, ma contribuì in modo decisivo la nascita dello spirito nazionalista, che in quei anni rafforzò il proprio vigore. In un epoca nella quale le guerre cominciavano a mobilitare grandi eserciti di popolo, il numero era potenza, e un “cittadino” in più era più utile di una madre che aveva ormai quasi terminato la sua funzione sociale. L’imperativo demografico ebbe la meglio su quello morale. La “madre albero” fu definitivamente abbattuto, e con esso i principi naturali che avrebbero dovuto regolare la vita di tutti noi.