di Antonio Calicchio
C’è chi complotta contro l’Italia. L’abbiamo scoperto in questo periodo, leggendo i giornali o ascoltando la televisione.
Chi può essere contro l’Italia, il Paese che ha perso tutte le guerre del mondo (o quasi), il popolo che i nostri genitori ci hanno insegnato a considerare il più buono e generoso di tutti? Si dice che sia la Germania, la nazione-leader dell’Economia europea. Già, perché se è vero che i Trattati di Roma e di Maastricht garantiscono, per i membri dell’Europa unita, la parità politica, è altrettanto indiscutibile che, dal punto di vista economico, essi sono divisi secondo due livelli: da una parte, la “serie A” degli stati stabili; dall’altra, gli stati instabili o, comunque, meno affidabili. Figuriamoci se l’Italia può accettare di essere una nazione di serie B! Non è tanto il contenuto reale della classificazione a risultare sgradito, ma è il fatto di essere giudicati dagli altri in modo diverso da ciò che si è convinti di essere, ad apparire insopportabile.
Siamo il Paese in cui i sindacati, umiliati e offesi alla stessa stregua da governo e industriali, non sono i più evoluti d’Europa. Siamo il Paese in cui la R.A.I. – televisione di Stato – finanziata da noi, non fa sempre ottimo servizio pubblico. Siamo il Paese in cui una scuola non riesce a tenere il passo, né moralmente, né scientificamente, con le migliori istituzioni scolastiche del mondo. Vi sono, in buona sostanza, due modalità antitetiche di valutare le questioni italiane. Una è di tipo “idealistico-utopistico” e tende a far rappresentare l’Italia dal meglio di ciò che produce: è la terra della cultura e della scienza, di Eco e della Levi Montalcini, dell’arte e della musica, di Burri e di Abbado, dell’industria e della tecnologia, di Armani e della Ferrari. Non c’è dubbio che questa sia un’Italia di serie A, un’Italia che mai la Germania o la Francia si sognerebbero di non volere al proprio fianco. L’altra è di natura più “oggettiva” e reputa gli Eco, la Levi Montalcini, Burri, Abbado, Armani e Ferrari, eccezioni che occultano un panorama nazionale assai meno esaltante: una classe politica bizantina e di scarso livello, una grande industria privata che non può fare a meno delle sovvenzioni pubbliche, una burocrazia feudale, una scuola allo sbando, un numero basso di laureati, un dilagante tasso di diffusione dell’analfabetismo comune, un patrimonio storico-artistico tenuto in pessime condizioni, una giustizia lenta ed autoritaristica.
Rispolverando un ideale di nazionalismo che, talvolta, rasenta lo sciovinismo, i nostri politici vogliono persuaderci che contro l’amata Italia la Merkel e i suoi amici (la perfida Albione, gli infidi cugini d’Oltralpe) stiano macchinando una congiura internazionale. Intendiamoci, la volontà di stare nell’Europa è nobile e meritoria; ma bisogna fare i conti con la realtà, senza sperare di truffare nessuno o di confidare, italianissimamente, nella pietosa benevolenza di chi comanda. Molta Italia è ancora di serie B. Però, ogni popolo è figlio della propria storia e noi abbiamo una storia particolare che non ci rende, certo, peggiori degli altri; una storia che non ci fa sognare né un’altra terra, né un altro mare, né un altro cielo.
L’Italia, quindi, è tra i Paesi europei dell’Euro. A suo tempo, esultò Prodi, esultò Ciampi, esultò D’Alema, esultarono i sindacati, esultarono gli Agnelli e i giornalisti. Esultò l’Italia dei potenti sempre più potenti, quella che fortissimamente volle l’ingresso nell’ “Europa di serie A”. Esultarono, ed esultano, oggi, di meno i comuni cittadini, i deboli sempre più deboli, coloro che si sono accollati concretamente gli sforzi per il raggiungimento del traguardo, poiché coscienti e vittime, a differenza dei potenti, delle conseguenze socio-economiche che la scelta di perseguire l’obiettivo, ad ogni costo, ha provocato. Quest’Italia ha presentato agli Europei, dopo quindici anni, conti da serie B, in quanto avviata, socialmente e civilmente, verso la serie B. Quest’Italia, che pensa di poter sedere a Bruxelles al tavolo dei leaders, solamente per aver cercato di “arrangiare” i bilanci, attraverso l’opera taumaturgica degli ultimi presidenti del Consiglio, è un Paese il cui modello strutturale è sempre più lontano dall’Europa migliore.
E’ il risultato di una politica della “non politica”, sensibile esclusivamente alla salvaguardia delle casse, ma incapace e, anzi, non intenzionata ad affrontare i problemi di natura, appunto, politica emersi in questi anni. Si è lasciato che i mali peggiorassero, ovvero che fossero altri (i giudici, ad es.) ad occuparsene. Perché gli ultimi quindici anni – sebbene Berlusconi e Prodi, centro-destra e centro-sinistra, non se ne siano avveduti – si sono rivelati, per l’Italia, anni di regressione. Ha avuto principio una fase di smobilitamento dell’industria “pesante”, quella che costituiva la principale ossatura economica del nostro Paese, nonché la maggiore fonte occupazionale.
Fino agli anni ‘70, del secolo scorso, 1/3 dei lavoratori italiani era impiegato nell’industria; attualmente, l’industria raggiunge appena 1/3 di quella quota, lasciando fuori una quantità di manodopera eccedente, che trova difficoltà a riciclarsi nel mondo del lavoro. E, mentre in passato la crisi dell’industria corrispondeva a una crescita del settore terziario, adesso la tendenza si è bloccata. Lo sviluppo economico non comporta più un incremento dell’occupazione: si produce razionalizzando, automatizzando, perfezionando le risorse lavorative già disponibili. Trattasi di una crisi epocale, strutturale e non solo congiunturale, che, in Italia, determina danni spaventosi. Disoccupazione complessiva al 13%, con punte nel Sud stabilmente oltre il 20%. Un altro 15% è riservato ai “lavoratori poveri”, quelli che portano stipendi insufficienti a superare la c.d. “soglia della decenza”. Se si conta il numero di pensionati, se si valuta quanto si sia contratto il potere economico della media borghesia (la piccola si è già “proletarizzata”), ci si accorge che, in Italia, i veri benestanti non superano il 10% della popolazione.
Ora, se esiste un metro sicuro per giudicare la civiltà di un Paese, questo è rappresentato certamente dalla distribuzione della ricchezza. In Italia, dell’80% della ricchezza nazionale solo il 6-7% è della popolazione: siamo al capitalismo feudale, quello che gli U.S.A. e la Svezia hanno dimenticato sessant’anni fa. Siamo sulla scia di Hong Kong, Singapore, Taiwan, Corea del Sud, luoghi lontani da un capitalismo ad equilibrio sociale.
Il crack dell’occupazione non è l’unico a riguardare il Bel Paese. E’ sull’orlo del crack la Sanità pubblica, massacrata da decenni di sprechi e di servizi inqualificabili. E’ sull’orlo del crack il mondo della scuola, sempre meno capace di creare professionalità evolute e con docenti demotivati. E’ sull’orlo del crack la Giustizia. E’ sull’orlo del crack il commercio dei piccoli e medi esercenti, distrutto dal crollo dei consumi e dalla concorrenza della grande distribuzione. Sono sull’orlo del crack le ferrovie e la R.A.I., e il discorso potrebbe proseguire. Ma la nostra classe politica non ha avuto occhi, né coscienza per rendersi conto di tutto ciò, nel governare il Paese, in questi anni!