Fu Petrarca, per primo, ad attribuire, a Dante, la paternità della lingua italiana.
di Antonio Calicchio
In occasione del 700° anniversario della morte di Dante, ci associamo alle celebrazioni che si stanno tenendo non meno che in Italia, ma anche nel resto del mondo. Non par dubbio che Dante sia il “padre della lingua italiana”, come, ab immemorabili, si dice e si scrive, ma del pari certo è che siffatto primato gli è stato attribuito, per primo, ad opera di Petrarca il quale non mancò di qualificarlo quale “guida della lingua volgare”. Tuttavia, l’elaborazione culturale di Dante si è mostrata determinante nel conferire prestigio a quella lingua, a lui coeva, che, diversa dal latino, veniva chiamata “volgare”.
Del resto, se Dante non avesse realizzato la Divina Commedia, l’italiano attuale sarebbe una lingua differente. Ed infatti, la linguistica ritiene che più di 1600 fra i 2000 termini del nostro dizionario essenziale si rinvengono nel poema dantesco.
Considerato, poi, tutto quel complesso di modi, ormai, proverbiali derivanti da analoghe citazioni del poema: senza infamia e senza lode, le dolenti note, far tremar le vene e i polsi, cose che ‘l tacere è bello, non ti curar di lor (che nel testo è: non ragioniam di lor) ma guarda e passa, et similia. Appartengono, altresì, a Dante sia la definizione dell’Italia come il bel Paese (“il bel Paese là dove ‘l sì suona”), sia l’impiego metaforico di Galeotto (“Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse”) o di tetragono (“tetragono ai colpi di ventura”).
E nel novero dei numerosi termini di Dante ovvero a lui riconducibili, si individuano, inoltre, tutti quelli che, lungo il corso dei secoli, sono scaturiti dal suo nome. Quali – appunto – i dantismi, termini od espressioni di origine dantesca. O quali i dantisti, gli studiosi di Dante che il fervore ha condotto, non di rado, a tali eccessi da vedersi assegnate singolari definizioni. “Dantista è divenuto, nell’uso comune del linguaggio, quasi sinonimo di dantomane”, affermava, nel 1920, Benedetto Croce. E, agli albori dello scorso secolo, Rodolfo Renier, pubblicava un libro intitolato Dantofilia, dantologia, dantomania e, sin dagli inizi del sec. XIX, era consueta l’antinomia fra dantofilia e dantofobia che contestava e disconosceva quella che venne denominata dantolatria o “monoteismo dantesco”. Donde libri quali Le bruttezze di Dante o le Cretinerie di Dante e dei dantisti; donde il verbo danteggiare e, addirittura, una specie di immaginifica patologia chiamata dantite. Patologia resasi particolarmente acuta e contagiosa in concomitanza col centenario della morte di Dante festeggiato un secolo fa, venendo a coincidere con quella che è stata definita “l’epidemia commemoratizia”, del 1921.
Il neologismo più prossimo a noi è il Dantedì, formulato per quel 25 marzo in cui, dall’anno scorso, si proseguirà nelle celebrazioni, in Italia, della figura di Dante.