
Il cristianesimo relegato nel privato è segno di una più ampia crisi, poiché la civiltà che esclude il sacro ammette una fede meramente “sociologica”
di Antonio Calicchio
Ciascun uomo, nella sua sorgiva parabola esistenziale, è una sorpresa. Anzitutto, per se stesso. Sorpresa, in quanto nessuno può sapere quale reazione può avere nel crogiolo delle vicende che lo attendono. Vi sono situazioni – tutti ne conosciamo – che dal di fuori appaiono insuperabili, giacché superiori alle nostre risorse. E che vorremmo tenere lontane. Ma non sempre è possibile, perché il tempo incalza e gli appuntamenti della storia – personale e sociale – vengono incontro e ci avvolgono, senza tener conto dei nostri progetti, né della nostra volontà. Ed allora non si può scappare: il senso di responsabilità ci sollecita ad abbracciare gli accadimenti e a giocarci al meglio.
Se, poi, si possiede un raggio interiore, quello della ferma fede, allora l’orizzonte assume una diversa lettura. E quelle che ad occhio umano sembrano circostanze e casualità, divengono il dito di Dio: dito di attenzione anche se indica pesi grandi che non si vorrebbe neanche sfiorare, come la risalita della corrente che punta alla croce.
Non è avvenuto così a Mosè? Nel momento meno pensato dei suoi giorni, Dio lo invia alla sua gente. Gli dà una missione straordinaria, superiore alle spalle umane: dovrà guidare l’antico Israele attraverso il deserto. Tenta inizialmente di resistere al compito; fa appello alle sue difficoltà. Ma Dio resiste di più! Egli ha fiducia in lui e si impegna a cooperare con lui. Sarà sempre al suo fianco.
Abbiamo il nuovo Papa Leone XIV, eletto da un conclave più numeroso e rappresentativo della storia. Lo vedo nella Loggia Centrale della Basilica Vaticana, cercando di interpretare lo sguardo di quella moltitudine approdata a S. Pietro il giorno della sua elezione per essere cinta da quella piazza, emblema di universalità e di speranza, oltreché per accogliere lui, Successore di Pietro. Mi sembra di sentire il sapore della sorpresa nello scoprire dal suo solenne discorso, costruito con linearità formale, limpidezza di contenuti e semplicità di stile, l’animus mite del condottiero, di colui che precede e guida, con accenti di serenità e di sicurezza, il suo popolo.
Se volessimo considerare manzonianamente la storia come manifestazione della Provvidenza, allora potremmo rilevare che questi primi mesi dell’Anno Giubilare, con lo svolgersi di quegli eventi che, nella loro successione e nel loro oggettivo significato, lo hanno sinora costellato, ci consentono di sostenere: “E ‘n la sua volontade è nostra pace” (Paradiso III 85), verso quanto mai profetico concluso dalla parola che ha avviato il pontificato di Leone XIV.
Egli ha ricordato di essere agostiniano. E il mio pensiero corre a quegli scritti in cui il S. Vescovo di Ippona, maestro e prototipo dei Padri della Chiesa di Oriente e di Occidente, disquisisce, con nitidezza di contorni, del luogo interiore in cui abita la verità, scritti la più parte dei quali rappresentano il frutto della predicazione e, dunque, del contatto diretto con la comunità affidatagli. “In Illo Uno Unum” è il motto del Papa, inteso come quello di un pastore che aiuta a seguire il Buon Pastore, per essere “unum” e per essere sempre una cosa sola. Principia, quindi, la sua missione di vescovo della Chiesa di Roma, chiamata a presiedere la Chiesa universale, secondo le enunciazioni dottrinali di S. Ignazio di Antiochia.
Così, con gli occhi rivolti al Vicario di Cristo, percependo l’eco del suo linguaggio, articolato su modulazioni vocali anglofone, palpitanti di dinamismo sospeso tra finito ed infinito, non posso fare a meno di rimemorare – come testé accennavo – la vicenda dell’antico Mosè, l’amico di Dio, pastore e guida: colui che ha assunto su di sé le gioie e le angosce del popolo, il suo destino vittorioso o sconfitto, portandolo innanzi a Dio, affinché da tutto traesse il bene. Guardo il Papa e insieme a molti mi domando: com’è possibile? “Portare” la Chiesa. Potremmo dire, “portare” l’umanità, dato che il S. Padre, nella sua sapientia cordis, ha l’odissea del mondo con le sue tensioni, le tragedie e le speranze. Cristo è venuto per tutti! Seguito a scrutare, con discrezione, il suo dire incisivo, i suoi gesti spontanei, il suo portarsi in mezzo agli uomini. Dio dà il peso e la forza necessaria! Carica del suo giogo, ma si affianca a colui che lo riceve come l’antico Mosè.
Comprendo, allora, il senso di sorpresa in chi ascolta quando egli evoca la vita cristiana. La sorpresa di un mondo il quale si avvede che nonostante i pesi e le croci dell’umano pellegrinaggio, tuttavia quell’uomo vestito di bianco invita alla speranza, col suo discorrere su registri di vitalità di ritmo e di tonalità vibrante, risonanti sì nella piazza S. Pietro, ma anche nel suo volto, sullo sfondo di quei saldi principi sacrali che sovraintendono all’agire cristiano nella società: la dignità della persona umana, il bene comune, la solidarietà, la sussidiarietà e la pace come tranquillitas ordinis ad intra et ad extra.
Leone XIV, da ex missionario alle frontiere della evangelizzazione, con formazione sostanziata da studi giuridici, è ben conscio che la secolarizzazione, la quale ha colpito profondamente vaste aree del pianeta, ha trasformato lo scenario religioso globale. Processo, questo, che è sfociato in un drastico decremento della partecipazione alla vita ecclesiale, con chiese vuote, riduzione delle vocazioni sacerdotali e religiose, un crescente disinteresse nei confronti della spiritualità e della fede cristiana e, più in generale, del mondo religioso e della vita dello spirito tout court. In molte di queste nazioni, la fede è, non di rado, confinata nella sfera privata o ritenuta insignificante rispetto alla vita collettiva.
A fronte di questo panorama di crisi spirituale, i predecessori di Papa Prevost, nel loro ministero petrino, si sono trovati a dover cercare nuovi percorsi per la loro missione evangelizzatrice, al fine di vivificare la presenza della Chiesa e annunciare il Vangelo in ambienti sempre più complessi in cui il sensus fidei richiedeva di essere alimentato. E in un simile contesto si è inscritta non solo l’iniziativa degli innumerevoli viaggi apostolici dei pontefici, come risposta alla esigenza di irradiare, con la luce del cristianesimo, terre in cui la fede è stata abbandonata o non è mai concretamente attecchita, ma anche quella di intensificare il lavoro missionario in ogni angolo del globo, per contrastare i fenomeni di scristianizzazione in atto.
Rimanendo al cuore geografico dell’Europa, i dati sono i seguenti: i lander dell’ex Germania Est sono, unitamente all’Estonia e alla Repubblica Ceca, i territori europei a più alto tasso di ateismo. La Germania, nel suo insieme, tanto nelle zone protestanti, quanto in quelle cattoliche, esprime un quadro per cui solamente il 40% afferma di credere in Dio. Però, è una idea generica; se si guardano, infatti, coloro che veramente frequentano una chiesa la domenica, allora la media cala in maniera vertiginosa. E se dal conteggio dei fedeli osservanti si defalcassero gli immigrati, allora le percentuali di frequentazione sarebbero ancor più misere.
Ma questa non costituisce soltanto una crisi del cristianesimo: si tratta, più estensivamente, di una crisi della dimensione del sacro e del suo valore specifico entro la società. Per la prima volta, dacché le civiltà umane hanno dato segnale di possedere una dimensione dell’interiorità – cioè da sempre – siamo in presenza di una civilizzazione da cui il sacro è assente, è un extraneus della prospettiva culturale percepita dai più. Al limite, quello seguito rimane un cristianesimo “sociologico”, composto di cerimonie e di feste, ma che scarsamente si riflettono sul resto della vita o delle pratiche giornaliere delle persone. Col cristianesimo, si dissipa una concezione morale su di esso fondata, senza che un’altra si palesi a prenderne il posto.
Di questa piaga radicalizzata deve prendersi cura il nuovo Romano Pontefice e fronteggiarla, tenuto presente che il cristianesimo soffre non della concorrenza di altre religioni – come l’Islam – bensì del fiorire pervasivo di un materialismo individualista in cui né Dio, né il prossimo, né tantomeno una morale della condivisione, possono più avere ulteriore spazio. Anzi, esso si restringe. Stiamo procedendo nella direzione di un “inverno della fede”, sempre meno illuminato anche dalle scelte sia liturgiche ed intellettuali, che civili e pratiche.
Fede che è – come asseriva S. Paolo – “fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede” (Ebrei XI, 1); vale a dire il precipuo pilastro su cui si basa la nostra speranza e l’argomento onde impariamo a credere quelle verità che non sono avvertite dai sensi. Dante, del pari, nel suo itinerarium in Deum, scriveva, in proposito, “le profonde cose / che mi largiscon qui la lor parvenza, / alli occhi di là giù son sì ascose, / che l’esser loro v’è in sola credenza, / sopra la qual si fonda l’Altra Spene” (Paradiso, XXIV, 70-74).
Buon lavoro a Papa Leone XIV, sul filo dell’auspicio di Paolo VI il quale rimetteva all’ “aiuto onnipotente di Dio” il “compito di pascere il gregge del Signore”, compito che definiva, richiamando una espressione agostiniana, amoris officium e che ora è assegnato al primo Pontefice proveniente dall’Ordine di S. Agostino, insieme al quale ciascuno potrà ritrovare il senso di una esistenza umana e cristiana rinnovata, così da camminare verso il futuro, trovando reali, morali e spirituali possibilità di rinascita.