Arriva in sala “Tito e gli alieni”, l’opera seconda della regista Paola Randi. Sospesa tra memoria e fantascienza è stata definita un gioiellino lunare della nostra cinematografia.
di Barbara Civinini
Come la cavallina storna che porta chi non ritorna, Paolo Randi, alla sua seconda volta dietro la macchina da presa, si lancia in un viaggio impossibile e ci regala una commedia del tutto inedita: Tito e gli alieni. La chiave di lettura non è quella della parodia alla Tim Burton, ispirata alla fantascienza anni 50, ma piuttosto quella del ripiegamento intimo. Il nostro protagonista, il Professore – interpretato da un ottimo Valerio Mastandrea, che dimostra di saper cogliere tutte le sfumature del personaggio – vive isolato nel deserto del Nevada per lavorare a un progetto governativo, ma in realtà passa le sue giornate su un divano ad ascoltare il suono dello Spazio. Il suo unico contatto con il mondo è Stella, una ragazza che organizza matrimoni per i turisti a caccia di alieni. Un giorno però la sua attesa di un cenno di risposta dall’amata moglie morta prematuramente e non dallo spazio, è interrotta dall’arrivo dei due piccoli nipoti: Anita e Tito, preziosa eredità del fratello morto a Napoli. I due ragazzi si ritrovano catapultati in mezzo al nulla, nelle mani di uno zio stropicciato, in un luogo pieno di misteri. Un villaggio di 54 abitanti in mezzo al deserto, cowboy e contadini, tutti convinti di essere custodi di un Universo più ampio e dei suoi segreti. Non è il solito film di fantascienza ibrido ma piuttosto una commedia nuova e fresca che, pur citando le migliori pellicole di genere anni 80, da Spielberg a Lucas – con l’immancabile robottino – mantiene una propria autonomia. Il Fato quotidiano l’ha definito un gioiellino lunare che dallo spazio è approdato a colpire nel cuore di chi l’ha intercettato. La testata parla di una fiaba fantascientifica dai sentimenti accesi, capace di ricordarci che “l’universo ha una voce” e spesso coincide col ricordo dei nostri cari che ci hanno prematuramente lasciato. E’ la stessa regista a spiegare com’è nata l’idea del film. Qualche anno fa colsi mio padre assorto davanti al ritratto di mia madre. La sua memoria si stava progressivamente sciogliendo come neve al sole, e lui cercava di conservarne il ricordo. Da qui, dice, sono arrivata a un uomo nel deserto con delle cuffie sulle orecchie seduto accanto ad un’antenna puntata verso il cielo, in cerca della voce di sua moglie. Non poteva che nascerne un film di fantascienza – genere di cui sono appassionata fin da bambina – con al centro una famiglia. È una storia piccola, di gente sospesa, sperduta in un luogo immenso: l’Area 51, il posto dove si dice che vivano gli alieni. Una terra desolata come la Luna dell’Orlando Furioso, un luogo dove l’Umanità ritrova quello che ha perduto. Dunque una favola che riguarda tutti noi, come ha detto Mastandrea. Un film che racconta – come riporta l’ANSA – il dolere della perdita con un registro inesplorato dal cinema italiano. Presentato al Torino Film Festival, Miglior regia e Miglior attore protagonista al BIF&ST 2018, è stato prodotto da Bibi Film con il contributo di RAI Cinema.