Perché il diritto nell’età della tecnica

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di Antonio Calicchio

Perché in questi ultimi anni torna l’interrogativo sulla fine del diritto? Perché si affollano analisi e profezie circa la sua irreversibile mortalità?

Nel giugno 2008, l’Accademia delle Scienze di Torino indisse un convegno intorno alla domanda: “Fine del diritto?”. Ne fu promotore un filosofo, Pietro Rossi, ossia il più eminente studioso di Max Weber e della calcolabilità giuridica come elemento del moderno capitalismo. Qualcosa è già accaduto, o sta accadendo, se i filosofi rivolgono così strenua attenzione al mondo del diritto e se i giuristi sono come percorsi  da un’ansietà filosofica.

Occorre pur dire che le profezie in ordine alla fine del diritto non sono una novità. Ne hanno parlato giuristi e filosofi. Fra i primi, è da ricordare Francesco Carnelutti che, in un saggio, risalente al 1953, prendeva in riflessione la “morte del diritto”. Perché gli uomini – a suo avviso – affratellati dall’amore del messaggio evangelico, non ne avrebbero avuto più bisogno. Egli, tra ingenuità filosofiche e abbandoni mistici, si faceva, così, interprete delle inquietudini e delle speranze del secondo dopoguerra. Ma proprio in quegli anni, negli anni cinquanta e in quelli successivi, si diffondeva, nella cultura italiana – e filosofica e giuridica – una profezia assai più profonda e meditata: quella di Marx, secondo cui il diritto, quale sovrastruttura dell’economia capitalistica, era destinato a morire con essa. Abrogata la lotta fra le classi, si sarebbe estinto lo Stato, si sarebbe estinto il diritto e sarebbe subentrata – è una espressione di Marx – “l’amministrazione delle cose”. E l’amministrazione delle cose richiede non il diritto, ma soltanto la tecnica del gestire.

L’importanza di questa teoria/profezia è straordinaria, in quanto, decretando la morte del diritto, sostituisce la regola tecnica a quella giuridica. Marx argomentava così: il diritto è una sovrastruttura dell’economia capitalistica, e, il giorno in cui verrà meno la lotta fra le classi, non resterà che l’amministrazione delle cose. Vi sarà non più il conflitto fra gli scopi, ma l’unità di uno scopo. E, dunque, poiché lo scopo sarà unitario e complessivo, le regole della tecnica potranno sostituire quelle del diritto.

Va rammentato, ancora, come, in Italia, nella cultura giuridica, si fosse diffuso un libro, di un teorico sovietico, il quale metteva a confronto la cura della società e quella dei pazienti, concludendo così: “la cura della società non è diversa dalla cura del malato e qui – cioè nella cura del malato – il contenuto delle regole si stabilisce attraverso la scienza medica”. E aggiungeva: “per il giurista non c’è posto”. Se il problema è soltanto di risolvere quello tecnico del malato, allora per il giurista non c’è posto, servono solamente le regole proprie della scienza tecnica. E’ da segnalare, dunque, la profezia di Marx, la profezia che tornerà in diversa situazione storica che è prossima a farsi realtà, o è già realtà, poiché annuncia la morte del diritto e l’avvento di una oggettiva e neutrale tecnocrazia.  Se gli uomini raggiungono una verità unitaria e conclusiva della storia, allora non c’è più bisogno del diritto, non c’è più bisogno dell’aspro conflitto delle ideologie, o dei partiti politici o dei dibattiti parlamentari, perché c’è, ormai, una verità conclusiva che potrà essere interpretata e replicata dai competenti.

Mentre negli anni cinquanta e nei successivi si diffondeva, nella cultura filosofico-giuridica italiana, la profezia di Marx, il diritto degli Stati europei sembrava conservare la fisionomia e le caratteristiche tradizionali. E qui sono da indicare e tratteggiare le caratteristiche d’insieme del diritto negli Stati europei moderni. Il diritto era congiunto alla sovranità territoriale degli Stati, alla sovranità di uno Stato sul proprio territorio. La parola territorialità è una parola di una eccezionale densità. E’ la parola che deriva dal latino terreo, che significa impaurire, intimorire. Il territorio è il luogo dove si svolge una potestà dominatrice che suscita paura, che intimorisce. E la sovranità degli Stati era una sovranità territoriale. All’idea di territorio si congiungeva necessariamente quella di confinatezza: non c’è un territorio, se non ci sono i confini. Un luogo è un vero ed autentico luogo, se è chiuso dai confini. Qui i giuristi ricordano come lo Stato territoriale fosse sempre assomigliato a una sfera, la sfera del diritto e la sfera dello Stato. E perché l’immagine geometrica della sfera? Perché la sfera racchiude; essa esprime la confinatezza e rivela ciò che sta dentro e ciò che sta fuori, i cittadini che stanno dentro e gli stranieri che stanno fuori. E, quindi, il diritto si congiungeva, di necessità, alla sfera territoriale dello Stato e all’idea di confinatezza. Entro i confini si muoveva l’intera vita sociale: la politica, il diritto, l’economia. Tutto era racchiuso entro i confini e la territorialità dello Stato. Ma proprio all’interno di questa vita, che sembrava così racchiusa, così imprigionata, nella geometria di una sfera, vi era una forza – l’economia – che non subisce il limite dei confini. Colpisce come nelle pagine dei sociologi e dei giuristi si evochi la figura del mercante. Egli è colui che, nelle tenebre della notte, mentre le tribù sono in guerra, svolge traffici, lucra guadagni; perché il mercante è transterritoriale, transconflittuale. Ed allora, gli homines economici, cioè gli attori della produzione e dello scambio, si fanno estranei e appartengono al mercato. Ma che cos’è il mercato? E’ forse un altro luogo, è forse il mercato rionale, è forse il mercato la cui descrizione apre le pagine di Einaudi nelle lezioni famose di politica sociale, vale a dire il mercato dei contadini, degli artigiani, dove produttori e consumatori si incontrano. E’ questo, oggi, il mercato? O, piuttosto, il mercato è un non-luogo? Il mercato non si lascia fissare in una porzione della superficie terrestre. Anzi, il mercato, ha, ormai, assunto l’importanza e l’identità di un soggetto. “I mercati vogliono”, “i mercati sono algidi o caldi”, “esigono o respingono”, “giudicano, approvano o disapprovano”. Il mercato, si fa da luogo, soggetto; un soggetto che si oppone e contrappone alla territorialità degli Stati. Noi siamo ancora racchiusi nei confini dei diversi Paesi e il mercato sta oltre; il mercato è un non-luogo, non identificabile nella superficie terrestre. Questo è il risultato di un processo c.d. delocalizzante, che si è, a mano a mano, compiuto e determinato negli ultimi secoli. Si pensi all’importanza che riveste, anche nella conversazione quotidiana, un avverbio: “dovunque”. Che significa: dovunque? La tecnica e la scienza sono dovunque. Dovunque, non è un luogo; esprime soltanto la generale fruibilità delle invenzioni tecniche. Nei Trattati europei, si parla di uno spazio interno senza frontiere. E che cos’è lo spazio? Lo spazio non è un territorio più vasto, non è una somma di territori. Esso è un non-luogo, è un mercato. E si pensi alla fruizione della telematica, dove si adotta il termine “navigazione”. Perché navigazione? Perché la navigazione è un abbandonarsi all’imprevisto, l’abbandonarsi alla molteplicità e indefinibilità delle rotte. Questo processo, che viene chiamato globalizzazione, è anche un processo di destoricizzazione. Ci strappa dai luoghi e, quindi, ci strappa dalla storia propria di ciascun Paese e di ciascuno di noi. A tale processo si è aggiunto un fatto storico di notevole rilevanza, come è stata la crisi del socialismo reale. Prima, si era chiamati a prendere partito fra Occidente e Oriente, fra una ideologia che dominava l’Europa occidentale e una ideologia dell’Oriente. Circa vent’anni or sono, declinano i Paesi del socialismo reale. E c’è un solo vincitore; c’è una ideologia che assume una egemonia incontrastata, ed è l’economia di mercato. Sembra che la storia dell’Occidente abbia raggiunto il proprio compimento, sembra che la storia dell’Occidente sia pervenuta ad una verità conclusiva, che è l’economia di mercato. Nessuno discute più l’economia di mercato. Una economia che domina il campo, come una verità incontrastata e inconfutabile e che richiede – ecco, qui, il legame con quanto accennato al principio, sulla profezia di Marx – solo la competenza e gli esperti.

Soffermiamoci su questo profilo.  La profezia di Marx era: la storia condurrà ad una società senza classi, si estinguerà lo Stato, si estinguerà il diritto, sopravviverà soltanto l’amministrazione delle cose. L’amministrazione delle cose non ha bisogno di diritto; ha bisogno esclusivamente della competenza degli esperti. Che cosa è avvenuto nella storia dell’Occidente? Caduto il dualismo fra ideologia dei Paesi europei e ideologia sovietica, si ha come la persuasione di aver raggiunto una verità unitaria e conclusiva, ovverosia la verità dell’economia di mercato, la quale, perciò, richiede soltanto la competenza degli esperti. Non c’è più bisogno – aveva detto il teorico del marxismo – del giurista. Non c’è più bisogno di tutto ciò che un teorico della restaurazione chiamava la clasa discutidora. Che cos’è la clasa discutidora? E’ la classe dei dottrinari, degli uomini politici, dei giuristi. Non ce n’è più bisogno, perché c’è una verità unitaria e conclusiva – l’economia di mercato – la quale necessita unicamente della competenza degli esperti. Ma se la verità conclusiva della storia d’Occidente è l’economia di mercato, se la regola tecnica prende il luogo di quella giuridica, allora che senso ha la democrazia rappresentativa? Che senso ha il dibattito politico, il voto nelle assemblee parlamentari? La democrazia rappresentativa presuppone una competenza generale dell’elettore. Ciascun cittadino ha un diritto di voto perché il diritto di voto implica una competenza generale capace di dare risposte a tutti i problemi. In un certo senso, la competenza generale dell’elettore assorbe in sé le competenze particolari dei singoli campi e dei singoli saperi tecnici. La democrazia rappresentativa ha un senso soltanto se si reputa che l’elettore sia dotato di una competenza, per così dire, generale; se si reputa che la competenza politica assorba in sé le competenza tecniche. Il principio maggioritario in tanto può prevalere su quello di competenza, in quanto si consideri che la maggioranza esprima, come tale, una risposta ai problemi della società. Se, invece, si ritiene che i problemi della società siano, ormai, legati ad una verità conclusiva ed unitaria, che è l’economia dei mercati, allora il principio maggioritario non ha più senso, deve soltanto valere il principio di competenza, interpretato e applicato, appunto, dai tecnici. E che ne è del diritto, dinanzi a quella che viene definita “la volontà di potenza” di Nietzsche, all’impeto della tecnica e dell’economia? Ebbene, “il diritto ‘fa’ fatica”! E qual è la fatica del diritto? La fatica del diritto, del diritto degli Stati, ma anche delle Unioni di Stati, è di inseguire i fenomeni della tecnica e dell’economia, perché – come evidenziato – la tecnica e l’economia hanno una dimensione planetaria, non conoscono confini; ed invece, il destino del diritto sembra legato alla terra, ai luoghi. I giuristi non riescono a concepire il diritto se non legato e stretto a un “dove”: dove si studia, dove si giudica, dove si applica. Ma la tecnica e l’economia non conoscono più i “dove”, non conoscono più i luoghi della terra. Di qui, allora, la fatica del diritto, per inseguire e raggiungere la dimensione planetaria della tecnica e dell’economia. Il diritto non riesce in questo inseguimento. Di qui le profezie sul suo declino, sul suo tramonto. E che cosa può accadere? Può accadere che le crisi economiche ci risospingano entro i confini degli Stati; ed allora, il diritto riprenderebbe la propria potestà territoriale, la potestà territoriale che era tipica degli Stati dell’Età moderna. Può accadere, come pronosticava Carl Schmitt, che il globo si divida e frantumi in grandi spazi. Questo è un capitolo poco o punto toccato nel dibattito culturale di oggi. Carl Schmitt è l’autore più controverso del ‘900. Egli ha avuto intuizioni geniali, ma è stato anche il giurista del Reich nazionalsocialista. Quando le truppe tedesche dilagavano per l’Europa, e la Germania affermava la propria egemonia, Carl Schmitt teorizzava l’ordine dei grandi spazi. Aveva intuito che gli Stati nazionali, gli Stai territoriali erano, ormai, al tramonto, e che si andavano formando dei grandi spazi. Naturalmente, il grande spazio, in primo luogo, era quello europeo occupato dalla Wehrmacht. Oggi, sciolti da memorie storiche e, per così dire, distaccando il pensiero di Schmitt dalle vicende del nazionalsocialismo, si può capirne l’intuizione geniale, cioè che il mondo si sarebbe diviso in grandi spazi. E’ da dire che, davvero, qui, l’analisi filosofica e giuridica deve cedere ad una sorta di pronostico; non di profezia che sia assimilabile alle altre. E nel futuro si possono vedere due alternativa, a meno che la crisi economica non ci riconduca entro i confini degli Stati. La prima alternativa è che la tecnoeconomia esprima da sé il proprio diritto. E questa è la posizione del filosofo Emanuele Severino, il quale reputa che la tecnica abbia in sé la capacità di generare le proprie regole, le proprie norme. E cioè che il diritto sia una sorta di normatività tecnologica, che ridurrebbe – come ovvio – i parlamenti ad organi di trasmissione di direttive tecniche. La tecnica, quindi, avrebbe in sé la capacità a generare norme. L’altra ipotesi sarebbe quella che le grandi potenze – le scienze, la tecnica, l’economia – si muovano in uno spazio che apparirebbe quasi vuoto di diritto; che, pertanto, i non-luoghi diventino anche un non-diritto, e, in un certo modo, che l’atopia si congiunga con l’anomia: nessun luogo e, dunque, nessun diritto. Un libro di Hardt e di Tony Negri, Impero, ha, in sé, alcune illuminanti intuizioni, e cioè che queste grandi potenze possano raggiungere, fuori dai confini degli Stati, fuori dalla volontà degli elettori, fuori dalle assemblee parlamentari, un loro assetto, una loro potenza dominante, lasciando noi individui inermi ed impotenti nella c.d. moltitudine del mercato. E’ una alternativa, la quale dà ragione di quel punto interrogativo che sta accanto al tema della fine del diritto.