La scuola ai tempi del tortore e dell’olio di fegato di merluzzo

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di Angelo Alfani

I primi confetti alleati vennero lanciati sul nostro litorale nell’inoltrata primavera del quarantatre lasciando sotto il fumo macerie arrossate. La presenza dell’aeroporto di Furbara rendeva il territorio cervetrano obiettivo speciale al punto che le Autorità comunali si convinsero a chiudere la Scuola la prima domenica dopo la festa dell’ottomaggio. Tutti a casa, tutti promossi.

Trascorsero mesi terribili, tra miseria e sfollamento e momenti di grande eccitazione e libertà per i più giovani. I ragazzini, non carente pecunia, continuarono a tenersi in allenamento andando a ripetizione da una signorina appena uscita dal seminario, o a casa della maestra Borghi in cambio di piccoli favori.

Il portone di ingresso della scuola venne ufficialmente riaperto la prima settimana di aprile del quarantacinque con le lezioni che si conclusero nel giugno: mai anno scolastico fu così breve.

L’edificio versava in uno stato pietoso: la maggior parte dei vetri delle tante finestre rotti, aule svuotate di qualsivoglia suppellettile in legno, utilizzate per riscallasse durante i due inverni.

Le cartine dell’Africca italiana e del Mascellone erano state belle che appallottolate; restò, per poco ancora, la foto del Re bassotto.

Il primo vero anno scolastico post guerra fu quello del ‘45/’46 che vide i più grandi con due anni abbonati “causa di forza maggiore”, un centinaio, circa, i regolamentari iscritti in prima.

Si racconta che furono i genitori stessi a procurare i banchi, ne venne fatto addirittura uno altissimo ed ad un solo posto anziché a due: il ragazzino troneggiava tra una trentina di capoccie. Le sediolette per mesi fecero avanti e indrè: casa e scuola, scuola e casa.

Scolari del dopoguerraIl turno mattutino iniziava alle otto e mezza e proseguiva fino alle dodici e mezza, a cui seguiva la refezione: scodellata di minestra con occhioni di margarina o pasta corta o spezzata al pommodoro, distribuita in classe dalle bidelle. Gli aventi diritto (quasi tutti) si portavano la scodella, il cucchiaio e forchetta da casa e mangiavano sui piani inclinati degli ostili banchi. Il coltello non era contemplato.

Per un lungo periodo, nella prima stanza del lungo corridoio, detta ambulatorio, veniva fatto inghiottì una cucchiaiata di olio di fegato di merluzzo ad ogni scolaro. A poco servivano le gocce di limone o, quando ci stava, una pizzicata di zucchero: l’amaro ti restava in gola per lungo tempo.

Alle pareti erano affissi due grandi manifesti colorati: uno che illustrava i tipi di bombe che si potevano trovare per le campagne limitrofe al paese, l’altro,macabro ma efficace, raffigurava un bambino con i moncherini fasciati da bende insanguinate, che piangeva disperato.
L’aula era uno stanzone immenso, colorato fino a metà altezza di grigio, col soffitto di un bianco sporco. Alle pareti la cartina dell’Italia, e le lettere dell’alfabeto esemplificate da un oggetto: imbuto, cane, gallina, uva….

I banchi erano a due posti con sedile fisso: al centro il calamaio che ogni mattina veniva riempito dalla bidella di inchiostro nero. Infinite battaglie erano sostenute dagli scolari che cercavano di evitare goccioloni, usciti dal pennino, sul quaderno che in fretta si spandevano impaludando il dettato. Rotoli di carta assorbente non evitavano il danno.

Lavagna, gessetti e cancellina erano essenziali, assieme al sussidiario ed il libro di lettura.

Sul tavolo dell’insegnante non mancava mai: il castigasomari. Quasi tutti i maestri ne avevano uno personale: manico di scopa simile al manganello, ramo fresco di ulivo a mo’ di frustino, ramo nodoso di quercia simile ad un tortore.

Gli scolari venivano colpiti sulle mani, sulle gambe, sulle spalle. Inutilmente la mano si ritraeva evitando la botta: pagavi doppio.

Ricordando questa espressione primitiva di didattica sembra che il libro e moschetto, fosse stato sostituito dal libro e tortore.