La pace e il suo valore

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palestina libera

Il valore della pace scaturisce dalla guerra: ove sorgono o si preannunziano scenari bellici, là nasce l’esigenza di pace.

di Antonio Calicchio

Mentre scrivo, la quasi totalità dei canali televisivi sta centrando la sua attenzione sulla guerra in Ucraina e su quella di Gaza. Del resto, i virologi hanno ceduto il passo agli analisti di geopolitica. Sullo sfondo, si scorgono nuovi bombardamenti indiscriminati sulle città.

In questi mesi, invero, il vocabolo guerra circola assai velocemente.

La guerra costituisce sì una manifestazione della umana conflittualità, quale contrasto di forze, di interessi che non trovano maniera, né misura di convivere, ma dietro di essa risiede anche una mitologia, una concezione del mondo, una narrazione descrittiva della violenza.

Nell’antichità, in cui la guerra veniva posta in essere con le frecce e con l’arco, l’individuo più rispettato ed apprezzato della comunità era un guerriero, cioè un uomo ardimentoso il quale, in nome di divinità autoritarie e vindici, assassinava il nemico che era anzitutto nemico dei suoi dei. Ciò conferiva alla guerra una natura di sacralità che la fasciava di un’aura misterica. Erano le divinità di un cielo accigliato che intervenivano, facendosi scudo di soggetti prescelti mercé la loro possanza, col risultato che le guerre erano narrate in termini di enormi epopee popolari che infuocavano gli animi.

Però, gradualmente, le guerre si sono distanziate dalla volontà celeste, divenendo efferatamente terrene. In luogo di due guerrieri o di un piccolo scontro tra giovani scelti, inoltre, si sono convertite in azioni collettive. Così sono proliferati gli eserciti disciplinati e feroci che si giovano di armi sempre più raffinate e letali, e la guerra non riguarda più il guerriero col suo corpo, bensì involge una intera armata. Il colpito non è il segnato dal destino, ma è il popolo di un Paese, iniziando dai più deboli, ivi compresi i bambini, piccoli, inermi ed incapaci di difendersi.

Dacché, poi, sono state inventate le testate atomiche, capaci di annientare, in pochissimi secondi, una intera città con all’interno tutto ciò che vi è di più mirabile, come corpi, valori, affetti, arte, scienza, pensiero, creatività – si pensi a Nagasaki – la guerra si è trasformata in un che di totalmente distruttivo. Le armi nucleari, peraltro, presentano una capacità di espansione e di inquinamento che colpirebbe, oltreché il nemico, pure chi le utilizza. Donde una qual certa deterrenza che ci ha conservato la pace per oltre settant’anni.

Benché sia stato sviluppato l’apparato tecnico, realizzando armi sempre più agili e ferali, tuttavia non si è pensato a sviluppare il livello di civiltà. Per civiltà, qui, intendo l’etica pubblica la quale, a mio avviso, altro non vuol dire che attitudine comune al rispetto dell’ambiente, della vita umana, alla risoluzione dei conflitti attraverso la diplomazia e la contrattazione, senza alimentare atti di distruzione che attualmente sono divenuti, ormai, di massa.

Come proclama instancabilmente e sapientemente il pontefice, la pace deve divenire cultura quotidiana universale. Imparare a controllare e a sublimare le pulsioni più aggressive per fondare e conservare un mondo radicato sulla convivenza pacifica delle genti, necesse est!

Mi preme, altresì, puntualizzare, in proposito, che il mondo si esprime e instaura relazioni sulla base di sistemi linguistici; la guerra possiede un linguaggio suo, non dissimilmente dalla cultura. Però, mentre il linguaggio di quest’ultima tiene conto della diversità, muove dal principio di conoscenza e di rispetto nei confronti dell’altro, il linguaggio della guerra si orienta verso la semplificazione, la divisione del mondo in amici e nemici, ossia di un mondo in cui è legittimo ammazzare coloro i quali vengono ritenuti diversi.

Sicché, il linguaggio della razionalità viene nullificato, reso cieco, sordo e fanatico nei tempi di guerra, a tal segno che sovente le informazioni deformate, la propaganda unilaterale riescono a suscitare un odio diffuso nei riguardi del vicino, generando la paura del futuro, il senso di appartenenza nazionale. In questa prospettiva, la guerra può accendere gli animi, determinare impeti di vendetta e condurre alla catastrofe. Tutti abbiamo visto le “adunate oceaniche” della folla sotto il balcone del duce, a piazza Venezia, allorché annunziava, il 10 giugno 1940, che l’Italia dichiarava la guerra all’Inghilterra e alla Francia!

Per questa fondamentale ragione, il rischio di una guerra nucleare non sembra stemperato col moltiplicarsi delle armi nucleari. Non è agevole fermare popoli infatuati e montati ad opera di regimi in ansia di ampliamento, convinti dal loro capo carismatico di essere titolari di diritti e di privilegi al di sopra di altre popolazioni.

Ma una resistenza è sempre ammissibile, e solitamente origina dal basso. Quella migliore è sempre la resistenza di una massa consapevole che, mediante argomentazioni pacifiche e deciso volere, ripudia le armi, l’odio e la soppressione del nemico.

Come dianzi evidenziato, è dal febbraio 2022 che la guerra in Ucraina fluttua sopra di noi e ci sovrasta quale oppressivo e tormentoso incubo da cui non appare possibile destarsi. In questo momento, sembra che USA e Russia siano – o lo saranno a breve – in procinto di definire il cessate il fuoco. Dopo tre anni e mezzo, in cui si è reiteratamente sostenuto che la pace sarebbe dovuta essere una pace giusta, che prendesse in considerazione le ragioni dell’Ucraina e che l’Unione Europea sarebbe stata una parte in causa, ebbene di tutto ciò non si rinviene niuna traccia.

Vi sono coloro i quali evocano una violazione del diritto internazionale. Ecco il punctum dolens: esiste un diritto internazionale? Esiste, sul piano internazionale, un diritto che si impone sui soggetti al di là di cosa creda o voglia il soggetto, come esiste negli Stati nazionali?

Se USA e Russia si accorderanno per una pace in Ucraina, e se Ucraina ed Unione Europea si troveranno di fronte al fatto compiuto, che cosa significherà per il Diritto Internazionale? Esisterà ancora? O lo si dovrà qualificare alla stregua di un sofisticato svago per congressi internazionali?

A questo punto, vorrei concludere da un’ottica più generale.

La questione della pace risulta strettamente correlata a quella della democrazia e a quella dei diritti umani, cui ho dedicato numerosi miei scritti. Il riconoscimento e la garanzia dei diritti umani sono al fondamento delle costituzioni democratiche moderne; la pace rappresenta l’indispensabile condizione per il riconoscimento e l’effettiva garanzia dei diritti umani nei vari Stati e nell’ordinamento internazionale. Al contempo, il processo di democratizzazione dell’ordinamento internazionale che costituisce il percorso obbligato per il raggiungimento dell’ideale della “pace perpetua”, nel significato kantiano del termine, non può proseguire in difetto di una graduale estensione del riconoscimento e della garanzia dei diritti umani al di sopra di ogni Stato. Pace, diritti umani e democrazia sono tre elementi essenziali di un medesimo processo storico: in assenza di diritti umani riconosciuti e garantiti non esiste democrazia e senza democrazia non vi sono i presupposti minimi per la soluzione pacifica dei conflitti. Ciò che val quanto dire che la democrazia è la società dei cittadini e i sudditi divengono cittadini nel momento in cui vengono ad essi riconosciuti taluni diritti elementari. Non vi sarà pace stabile se non allorquando vi saranno cittadini del mondo intero e non più solo di un singolo Stato.

Ispirati così da siffatti principi, come dalle sagge riflessioni del nostro papa Francesco, iniziamo tutti, nessuno eccettuato, ad essere edificatori, operatori e testimoni di pace.