Autrice di “Panta Rei. Quando l’amore dà voce al silenzio”
di Andrea Macciò
Panta Rei quando l’amore dà voce al silenzio è il romanzo d’esordio della giovane autrice di Caivano Simona Laurenza, che, come si legge nella prefazione a cura di Adele Vairo, si è appassionata alla scrittura durante un progetto PCTO sull’editoria e di educazione alla lettura.
Nel suo libro sono moltissimi i temi sociali e di attualità trattati con grande profondità e con una prospettiva originale e mai scontata, dalla virtualizzazione dei rapporti interpersonali nell’era dei social al bullismo, dall’educazione affettiva al ruolo della scrittura.
Con questo libro Simona Laurenza racconta con grande intensità come il mondo fluido della vita “on line” dove tutto scorre, panta rei, la perenne condivisione virtuale, l’esistenza iper-organizzata delle e degli adolescenti di oggi possa determinare per alcuni la difficoltà a vivere appieno il presente, i rapporti personali, l’amore, e riesce a dare voce alle ragazze della “Generazione Z” invitando i lettori ad andare oltre le apparenze e a guardare al di là della “vetrina” con la quale si presentano al mondo attraverso i loro curatissimi profili social.
Cogliendo il suo invito ad “andare oltre le apparenze” l’abbiamo intervistata per comprendere al meglio il suo punto di vista.

Sinossi del romanzo
La protagonista Ginevra è un’adolescente sensibile e inquieta, che sta attraversando il difficile momento di transizione tra l’adolescenza e la prima fase dell’età adulta. Quando aveva 15 anni, ha assistito senza riuscire a intervenire a un omicidio all’interno del liceo che frequentava, degenerazione di un episodio di bullismo, e da allora Ginevra è rimasta così traumatizzata e sconvolta da perdere la voce. Non riesce più a parlare, e comunica solo attraverso i messaggi e la parola scritta. Nella sua vita una presenza sicura sono le amiche del cuore, Mina e Ludo e l’amico di sempre Daniele, che non riescono però a scalfire la sua sofferenza nascosta. Il suo trauma la fa sentire “diversa” agli occhi del mondo, e di questo ne soffre in particolare quando si troverà di fronte al passaggio dagli anni del liceo all’ingresso nel nuovo mondo dell’Università. L’incontro con Enea, un ragazzo “particolare” come lei, sembra poter essere la scintilla che permette a Ginevra di guardare oltre le aspettative, i pregiudizi, i sensi di colpa e vivere grazie all’amore la libertà di essere sé stessa. Riuscirà l’amore a “dar voce al silenzio” di questa ragazza o il trauma del passato rischia di riaffiorare ancora una volta?
Puoi raccontarci qual è stato il tuo percorso di avvicinamento alla scrittura creativa?
Sono sempre stata appassionata alla scrittura, fin da piccola. Scrivevo delle “ministorie” nelle quali la protagonista era la mia insegnante, rappresentata come un’eroina. Crescendo ho “perso” il tempo di scrivere, o forse non l’ho più voluto trovare, troppo distratta dai social, dalla ricerca di un profilo perfetto. Al liceo, quando tutti dovevamo scegliere un percorso PCTO, io ho optato per “Creativamente”. L’ho scelto in maniera veloce, senza neanche sapere di preciso di che cosa si trattasse, mi piaceva il nome. Ho scoperto poi che era un percorso sulla scrittura e l’editoria. In uno dei primi incontri abbiamo scelto un libro da leggere, in quelli successivi dovevamo mettere in scena la presentazione, con l’autrice, il giornalista, chi fa le domande…le mie amiche scelsero me per impersonare l’autrice, così, dopo aver letto quel libro, ho cercato di interpretarla rispondendo alle domande dal mio punto di vista. E così, fingendo di essere una scrittrice, mi è venuta voglia di esserlo davvero e di raccontare qualcosa che partisse dalla mia penna. Il coordinatore del progetto mi ha chiamato, stava cercando delle storie nelle quali fossero protagonisti i giovani, mi ha chiesto: perché non mi mandi qualcosa? Io gli ho inviato il mio scritto, ne è rimasto molto soddisfatto, e così è nato il mio “Panta Rei. Quando l’amore dà voce al silenzio”.
Nel tuo libro ti soffermi molto sul tema dei social e sul rischio di una virtualizzazione dei rapporti interpersonali e sociali. La tua protagonista ha una visione molto critica di tutto questo, qual è il tuo punto di vista?
Io credo che i social oggi ci privino di molte energie.
A causa dell’ossessione di apparire perfetta sui social, io mi ero allontanata da quello che davvero è importante per me: la scrittura. Per la mia generazione (chi più, chi meno ovviamente) i social sono forse troppo importanti, è molto il tempo “sprecato” a rendere perfetti i nostri profili, la vetrina superficiale di quello che realmente siamo, rischiando di non guardare agli affetti importanti della nostra vita. Inseguiamo canoni di bellezza irraggiungibili, perché le foto sono ritoccate, e spesso neanche lo sappiamo, perdendo di vista il punto centrale della vita. Cercando di essere qualcosa di perfetto che piaccia agli altri, rischiamo di non piacere più neppure a noi stessi. Questo è il punto critico, che ci rende tutti uguali, alienati, fuori da noi stessi.
Secondo te questa “dipendenza” dai social e questo distacco dalla vita reale colpisce solo o in prevalenza i giovani della “Generazione Z” e i cosiddetti nativi digitali, o anche le generazioni più adulte o anziane che ormai li usano in maniera diffusa?
Nei più giovani credo sia molto più forte. Noi siamo cresciuti con i social, non abbiamo conosciuto una realtà dove non ci sono, dove è importante solo essere sé stessi, la naturalità delle cose. Essendo influenzati dalla nascita da questo meccanismo è difficile uscirne. Credo invece che per i nostri genitori e tutti quelli che hanno vissuto l’epoca pre-social sia più facile uscirne, prendere le distanze, farne anche un uso più funzionale.
La ricerca di un’immagine “perfetta” sui profili social e di modelli di bellezza e perfezione fisica ed estetica impossibili secondo te colpisce in prevalenza le ragazze o riguarda invece anche i ragazzi della tua generazione?
Per quanto riguarda femminile e maschile credo ci siano poche differenze. Noi ragazze possiamo avere molte paranoie sul nostro fisico, confrontandoci con queste influencer perfette e bellissime. I ragazzi magari più frequentemente si confrontano con il modello “palestrato” che pubblica magari anche il suo lavoro in palestra, e cercano di avere lo stesso fisico, magari usando sostanze che non si dovrebbero usare. Un fisico da “vetrina” che attrae certamente. La bellezza però attrae, attira, ma svanisce. Quello che ci fa restare è una testa ben fatta, una persona ben formata e con dei valori.
Nel libro la tua protagonista Ginevra vive una forte difficoltà emotiva a causa di un trauma vissuto nella prima adolescenza. Ci sono elementi autobiografici che ti hanno ispirata nella creazione di questo e degli altri personaggi di Panta Rei?
Ogni personaggio ha qualcosa di mio. Noi scriviamo quello che siamo, e ogni personaggio è un’estensione della mia anima. La migliore amica della protagonista, Ludo, ha problemi col suo fisico, si guarda continuamente allo specchio e non si piace. Questa è una sensazione che ha caratterizzato anche me durante tutta l’adolescenza e che mi caratterizza ancora adesso. La protagonista Ginevra ha anche il problema del blocco nel parlare. Io mi identifico con lei non perché ho assistito a un evento del genere, spero che non mi succeda mai, ma perché io mi sento incompresa.Io parlo, alcuni mi dicono troppo, ma non mi sento capita. Come se non parlassi. Quasi quasi allora penso che sia meglio ascoltare, non parlare proprio, visto che non prendendo parte attiva alle situazioni si capiscono molte cose.
Anche Lea ha una parte di me, quando racconto della sua relazione con il fratello. Io spesso ho puntato il dito contro persone a me care senza chiedermi il perché delle cose, mentre sarei dovuta andare oltre l’apparenza, oltre quello che dicono tutti.
Un altro tema importante del libro è quello del bullismo. Secondo te l’approccio del mondo scolastico e mediatico al contrasto di questo problema molto grave oggi è adeguato o sarebbe necessario modificarlo?
Secondo me il problema del bullismo non è mai stato risolto perché lo si tratta in maniera sbagliata. Non bisogna dare troppa colpa al “bullo” perché in primis è una vittima, una persona “rotta”, altrimenti non avrebbe tutta questa aggressività verso la società e i più deboli. Si sbaglia davvero approccio. Studiando psicologia, ho compreso che spesso la punizione è inutile, non funziona quanto il rinforzo. Punire una persona senza fargli vedere quale può essere il comportamento alternativo non serve a nulla, e nel caso del bullismo punire e basta il bullo facendolo diventare a sua volta una vittima della società crea solo un circolo vizioso. Bisogna cercare di capire perché lo fa, la sua storia personale, sociale, culturale. La politica quando si occupa di questo tema di solito invita solo a denunciare, si occupa di protezione della vittima, senza staccare la radice del problema.
Io credo che servano dei percorsi psicologici appositi per queste persone: purtroppo oggi c’è ancora molta diffidenza verso questa scienza, andare dallo psicologo è visto come una “cosa da pazzi”. Come si cura il corpo, si dovrebbe curare la mente. Come esiste il medico di base, dovrebbe esistere lo psicologo di base. Molti drammi non esisterebbero, le persone hanno molti problemi psichici e spesso non lo sanno. C’è troppa poca sensibilità nei confronti del disagio psicologico, e ancora troppa “paura dello psicologo”.
Negli ultimi mesi si è molto parlato di “educazione all’affettività” e della possibilità di introdurla nelle scuole. Secondo te sarebbe utile che entrasse nei programmi scolastici? E in quale modalità? Come tema “diffuso” tra le diverse materie come la letteratura o l’arte o con un’ora specifica e insegnanti specializzati su questi temi, come psicologi e pedagogisti?
La letteratura può insegnare e educare all’affettività, può essere di grande aiuto, ci sono autori che scrivono testi meravigliosi che inducono a certi valori e insegnano come approcciarsi alle persone. Il problema è che non tutti si avvicinano alla letteratura, e non tutti hanno la sensibilità per cogliere certi passaggi.
Io credo quindi che serva un approccio anche frontale, che questi temi vadano “presi di petto” introducendo l’educazione all’affettività e l’educazione sessuale come vere e proprie materie. Penso che oggi le scuole siano vissute come istituzioni lontane dalla realtà, impegnate a riempire le teste delle persone di nozioni e teorie, che certo dobbiamo avere perché sono cultura, ma la cultura deve anche essere un mezzo per relazionarsi con gli altri. La scuola dovrebbe formare prima delle persone e poi delle “teste”. La cultura è importantissima, ma lo è nel momento in cui una persona sa vivere, sa relazionarsi con gli altri e la società.
L’educazione affettiva e sessuale dovrebbe essere introdotta come materia, perché se è vero che molti temi li troviamo nella letteratura e nelle materie umanistiche, è altrettanto vero che non tutti si appassionano allo studio e li colgono.
Anche la storia dovrebbe insegnarci a evitare gli errori del passato, eppure spesso questo non accade. Quando parlo di materie specifiche non intendo lezioni aggiuntive al pomeriggio, che, anche per esperienza personale, non sarebbero molto gradite agli studenti, ma lezioni nel corso della mattina, magari anche attraverso lezioni meno tradizionali, con laboratori e progetti che possano coinvolgere e appassionare gli studenti.
La figura professionale che se ne dovrebbe occupare non è facile da individuare, ma lo psicologo potrebbe dare un grande contributo.
In questo modo si avvicinerebbero le persone all’istituzione scuola, vista non solo come un posto dove si studia, ma anche come il luogo nel quale si diventa una persona migliore.
In conclusione, quali sono i “messaggi” che hai voluto comunicare attraverso il tuo libro?
Uno dei messaggi che ho voluto dare è che è sempre necessario andare oltre le apparenze. E parlando del bullismo, credo che a seconda delle circostanze tutti possiamo essere i buoni o cattivi della situazione. Un altro messaggio che vorrei dare è quello sull’importanza di una maggiore sensibilità sociale e politica verso i problemi psichici.
Io sono convinta che alcune leggi, prima di essere promulgate, dovrebbero essere vagliate da un gruppo di psicologi e persone qualificate, ma sono anche consapevole che al momento appare un’utopia, perché la politica è un universo molto chiuso.
Note sull’autrice
Simona Laurenza, nata il 3 settembre del 2005 a Napoli, ha frequentato il Liceo “Alessandro Manzoni” a Caserta, indirizzo Scienze Umane, e attualmente è una studentessa presso l’Università “Luigi Vanvitelli”, dipartimento di Psicologia, a Caserta. Appassionata di lettura, scrittura e interessata all’osservazione del mondo che la circonda; ama Napoli, la danza, la musica e la compagnia dei suoi tre cani e cinque gatti.
Nel suo romanzo d’esordio, frutto di esperienze e riflessioni, Simona esplora le sfide della sua generazione. “Guardandomi intorno ho maturato la consapevolezza di una verità, ossia che la diversità è la più grande ricchezza” afferma, “e scoprirlo è stato il mio riscatto, sia come persona che come scrittrice”. Per questo, definisce la sua opera un “romanzo sociale”