Il Giardino dei Finzi-Contini nacque tra le tombe etrusche di Cerveteri

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Il romanzo di Giorgio Bassani, considerato uno delle più grandi opere del secondo dopoguerra, fu ispirato dai paesaggi del territorio ceritedi Luca Montesi

Il Giardino dei Finzi-Continidi Giorgio Bassani è uno dei più grandi romanzi italiani del secondo dopoguerra e da poche settimane è stato messo sotto una lente d’ingrandimento speciale, in quanto, un estratto del libro, è finito nella Tipologia A della prima prova dell’Esame di Stato, quella dell’analisi del testo.

La maturità 2018 è stata quindi un’occasione per riscoprire il capolavoro di Bassani, uscito per la prima volta nel 1962 per Einaudi, e nel 1970 finito anche al cinema con una trasposizione sul grande schermo diretta da Vittorio De Sica.

Ma cosa c’è all’origine di questa storia, ambientata a Ferrara tra gli anni Venti e Trenta, a ridosso di quel settembre nel quale va collocato lo scoppio decisivo della Seconda Guerra Mondiale? Qual è il moventeche ha permesso al narratore di raccontare? Ce lo spiega direttamente lui, l’io narrante nelle prime pagine del libro, il cui prologo inizia così:«Da molti anni desideravo scrivere dei Finzi-Contini – di Micòl e di Alberto, del professor Ermanno e della signora Olga – e di quanti altri abitavano o come me frequentavano la casa di corso Ercole I d’Este, a Ferrara, poco prima che scoppiasse l’ultima guerra. Ma la spinta, l’impulso a farlo veramente, l’ebbi soltanto un anno fa, una domenica d’aprile del 1957».

Allora, andiamo a vedere cosa accadde quella domenica d’aprile del 1957.

Il protagonista scrive che era in macchina con degli amici per la solita gita fuori porta. Da Roma, senza meta, la comitiva imbocca la via Aurelia e giunge, passando lì del tempo, nei pressi di Santa Marinella, al mare. Poi al ritorno, ripresa l’Aurelia, «giungemmo in vista del bivio di Cerveteri», e, per la sorpresa di tutti i passeggeri, chi guida decide di svoltare e imboccare l’ingresso del paese, una strada asfaltata che porta al cuore del borgo, «e di lì, inoltrandosi a serpentina verso i colli del retroterra, alla famosa necropoli etrusca. […]Passavamo ora a pochi metri dai cosiddetti montarozzi, di cui è sparso fino a Tarquinia e oltre, e più dalla parte delle colline che verso il mare, tutto quel tratto del territorio del Lazio a nord di Roma, il quale non è altro, dunque, che un immenso, quasi ininterrotto cimitero. Qui l’erba è più verde, più fitta, più scura di quella del pianoro sottostante, fra l’Aurelia e il Tirreno: segno che l’eterno scirocco, che soffia di traverso dal mare, arriva quassù avendo perduto per via gran parte del salmastro, e che l’umidità delle montagne non lontane comincia a esercitare sulla vegetazione il suo influsso benefico».

Insomma, il gruppetto si addentra tra le vie della necropoli della Banditaccia e nello specifico il narratore si sofferma sulla «tomba più importante», la Tomba dei Rilievi. La visione delle pareti decoratissime delle camere lo porta a riflettere: «io venivo tentando di figurarmi concretamente ciò che potesse significare per i tardi etruschi di Cerveteri, gli etruschi dei tempi posteriori alla conquista romana, la frequentazione assidua del loro cimitero suburbano». Ed è qui che si stabilisce il contatto, il collegamento tra il protagonista del romanzo in gita domenicale alla necropoli di Cerveteri e la storia che racconterà per il resto delle trecento pagine. Si nota che il narratore fa riferimento agli etruschi tardi, in decadenza, quelli che hanno subìto la conquista romana. Si chiede cosa significasse per loro passeggiare tra i monumenti commemorativi della propria gente, della propria stirpe, ormai giunta sulla via del tramonto. Ma perché, fa riferimento proprio a questo tipo di etruschi decadenti, di datazione tarda? Perché il protagonista-narratore è ebreo, e siamo nel 1957: è l’unico sopravvissuto della storia che si appresta a raccontare, mentre tutti gli altri protagonisti sono morti, la maggior parte dei quali nei campi di concentramento nazisti.

Nelle ultime righe di questo prologo che abbiamo preso in esamina l’io narrante chiude il cerchio dell’aneddoto “cerite” e apre le porte verso il romanzo. Spiega che durante il viaggio di ritorno di quella domenica, in macchina, «io riandavo a con la memoria agli anni della mia prima giovinezza, e a Ferrara, e al cimitero ebraico posto in fondo a via Montebello». Ed allora, la riflessione sulle tombe etrusche ha rivangato in lui ricordi lontani, ed ecco che gli si figura nella mente la monumentale tomba della famiglia Finzi-Contini, che troneggiava a Ferrara nel suddetto cimitero. «E mi si stringeva come non mai il cuore al pensiero che in quella tomba, istituita, sembrava, per garantire il riposo del suo primo committente – di lui, e della sua discendenza -, uno solo fra tutti i Finzi-Contini che avevo conosciuto ed amato io, l’avesse poi ottenuto, questo riposo. Infatti non vi è stato sepolto che Alberto, il figlio maggiore, morto nel ’42 di un linfogranuloma. Mentre Micòl, la figlia secondogenita, e il padre professor Ermanno, e la madre signora Olga, e la signora Regina, la vecchissima madre paralitica della signora Olga, deportati tutti in Germania nell’autunno del ’43, chissà se hanno trovato una sepoltura qualsiasi». Con queste parole si chiude il prologo e si getta un ponte levatoio tra la memoria dell’io narrante e il romanzo. Come, poco prima, aveva immaginato gli etruschi vagare oltre duemila anni fa tra i propri morti, adesso lui, cerca di muoversi tra i labirinti dei suoi ricordi, tra le persone care, persone ormai scomparse tragicamente.

Uno straordinario romanzo, Il giardino dei Finzi-Contini, che l’autore Bassani ci ha voluto far sapere esser nato dalla pancia di una gita domenicale tra il tufo della necropoli etrusca di Cerveteri. Un collegamento raffinatissimo, movente di un libro che è un viaggio in una memoria individuale, ma anche – e soprattutto – nella memoria collettiva. Ed è stato un gran bene proporne una riflessione ai cinquecentomila ragazzi “del ‘99” che hanno sostenuto, poche settimane fa, l’esame di maturità.