GITARELLE DI UNA VOLTA

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I CERVETRANI IN VACANZA AI TEMPI IN CUI LA LOGICA DOMINANTEERA: «PERCHÉ ANNASSENE SE QUI C’AVEMO TUTTO!?»

di Angelo Alfani

Ai cervetrani non gli è mai sconfinferato allontanarsi dal Paese, pur se per periodi brevi. Lo facevano per causa di forza maggiore: ricoveri e degenza in ospedale, servizio militare (qualora non fossero riusciti ad allungare qualche buccherettoad un maresciallo del Celio), carriera sotto le armi, raramente per cercare lavoro. C’è da mette in conto pure le consuete gitarelle ai santuari: Cascia, Loreto, Assisi, alla Madonna del Divino Amore, senza sottacere di Pompei e, proprio quando si voleva strafare, alla Basilica di Sant’Antonio di Padova.

Erano viaggi col biglietto di ritorno in tasca, tanto che il pullman non faceva in tempo ad imboccare l’Aurelia che già un nebbione di nostalgia avvolgeva le capocce delle compaesane. Dormire una notte “foricasa” poi veniva vissuto come fosse l’esilio in Elvezia a cui tanti anarchici italiani furono condannati. Insomma: “perché annassene se qui c’avemo tutto!?” era la logica dominante, agli antipodi di quanto W. Shakespeare fa dire a Romeo nel dramma veronese: “Debbo andarmene e vivere, o restare e morire”.

cerveteriSolamente a partire dagli anni del benessere diffuso, parecchi cervetrani avevano preso l’abitudine, durante l’estate, di trascorrere due settimanelle, ma non di più, nelle Valli del Vissano, nel comune sparso di Ussita e nei paesi limitrofi. Luoghi di origine, in cui vecchie case, da tempo abbandonate, avevano ripreso a vivere dopo costose ristrutturazioni. Era un viaggio a ritroso, un ritorno a casa, al punto che al passeggio serale lungo il corso, seduti ai tavolini dei bar, tra la Porta Santa Maria e Porta Pontelato di Visso, sembrava di non essersi mossi da Cerveteri: stesse facce, stesse espressioni, stessi argomenti, stessi pettegolezzi ed aneddoti. Ogni nuovo arrivo da Agylla era vissuto dai “villeggianti” cervetrani come il notiziario dell’ultima ora. L’abbandono improvviso del Corso a cui faceva seguito un silenzio che avvolgeva i Sibillini, era il segnale che un lutto aveva colpito il Paese. Per non parlare poi delle domeniche a pranzo dal “Navigante”: ci mancava solo di essere servito a tavola da Bruno o dai fratelli Lucarini per ritrovasse paro paro al Cavallino Bianco.

Le vacanze al mare, a parte quelle delle uscite giornaliere a Ladispoli, agli Scojetti o nelle spiagge ancora libere di Campo del mare, appartengono ai favolosi (sic) anni ottanta, quando le coste cementificate della Sardegna resero possibile per molti l’illusione di bagnarsi nelle stesse acque dell’Aga Khan. È con la trasmissione televisiva Giochi senza Frontiere, ma ancor più con i gemellaggi, antesignani dell’ inutile Erasmus, che ci si aprì l’Europa: Francia, Germania, Spagna.Non che non ci fossero stati temerari giovanotti che, sfidando la sorte, si erano fatti in venti ore il tragitto da Piazza Vicinatello fino a Piazza Dam, o che in autostop erano rimasti abbacinati dal biancore delle scogliere di Dover. Ma appartenevano alla gioventù ribelle e, proprio per questo, assolutamente esigua.

In questo breve rammentare non può essere dimenticato l’intraprendente Don Felice, che per molta parte degli anni settanta ammucchiava in pullman extra lusso un variegato e difficilmente domabile gruppo di cervetrani, portandoseli appresso per giorni in impegnative visite a Lourdes e Fatima, non rinunciando persino ad una “crocierina” in Sardegna. Impossibile perdere la memoria delle avventure nelle avventure di questi viaggi, come quando, per incomprensione con l’autista, si ritrovarono di sera tardi ad Asti anziché ad Aosta, come programmato. Don Felice assieme alla signora Filomena, la più intraprendente tra i “pellegrini”, similmente alla Vergine Maria e Giuseppe, costretti a scarpinare di albergo in albergo, con lo stupore manifesto dell’addetto alla reception alla richiesta:“Avete disponibilità di camere per una cinquantina di persone?!”. Obiettivo raggiunto a fatica, ma ancor maggior pazienza e fatica fu necessaria per l’assegnazione dei posti letto a causa dell’irremovibilità da parte di molti nell’accettare compagni di stanza ritenuti antipatici: “E chi ce dorme vicino a quella, manco si me ce legheno!”. Come non ricordare il breve sequestro in un albergo francese, essendo stato Don Felice derubato del borsello, fino a quando non vennero date garanzie di bonifico appena fossero rientrati a casa.

Rientra invece nella mitologia cervetrana il passaggio del valico di Andorra, durante una delle tante soste a cui l’età avanzata dei passeggeri obbligava la carovana. Nonostante i richiami a voce e le continue suonate di clacson nessuno si faceva vivo, come fossero scomparsi nella fitta umidità mattutina. Una manovra dell’autista, a cui fece seguito l’accensione dei fari lunghi, immortalò per sempre decine di cervetrani accucciati, alcuni mostrando la loro “luna bianca” , raccogliere lumache “speciali”. Altri tempi!