ESAMI E SCUOLA

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Si stanno svolgendo, in questi giorni, gli esami di maturità. L’avvenimento fa sempre notizia; ma provoca ancora brivido o preoccupazione in coloro che debbono affrontare le prove?

di ANTONIO CALICCHIO

Dagli ultimi anni del Sessanta – dello scorso secolo – prosegue un sistema d’indagine culturale e di valutazione che, posto in essere ab origine da motivazioni d’ordine politico, è stato – via via – manipolato, modificato, trasformato ed integrato a seguito di interventi compiuti anche ad opera di chi fa la scuola e la fa lasciandosi travolgere dal disorientamento generale e mentale che ha messo in crisi i principi identitari stessi della scuola.

Vano è ripetere sempre i medesimi argomenti. Le prove di maturità dovrebbero completare e definitivamente consacrare il ruolo educativo che la scuola espleta nei difficili e delicati anni della formazione.

Educazione. Perché può certamente dirsi educato un giovane che comprende come non si debbano violare le norme. La scuola può sicuramente gloriarsi d’avere educato quel giovane, d’averlo preparato ad un’inclusione partecipativa nella società; può affermare la scuola d’aver costruito in quel giovane le premesse dei valori della conoscenza e della coscienza in merito alla distinzione tra quel che è bene e quel che è male, tra il giusto e l’ingiusto.

Educazione. Perché può definirsi, invece, educatrice una scuola che, alla fine di lunghi corsi di studio, si fa rappresentare da un corpo insegnanti il quale non di rado guida gli allievi più che verso la maturità concepita in termini umani, morali, emotivi e culturali, verso quella concepita in termini di titolo e di voto connesso a quest’ultimo?

Orbene, immediatamente dopo la “maturità”, arriva l’Università, arriva la vita che li dirotta nella direzione di attività che sovente non presentano attinenza alcuna con la materia di studio. La percentuale degli iscritti che raggiunge la laurea è generalmente minima. Coloro che non superano il biennio universitario non si contano. La scuola superiore, così, delude e inganna.

Si discorre, ancora e senza soluzione di continuità, di una riforma degli esami. Qual che essa sia, mi domando e domando a voi lettori che senso può avere riformare gli esami in una maniera o in un’altra, come potrebbero essere riformati gli esami senza aggiornare metodi e contenuti, senza riformare la psicologia del docente, senza ricondurre la scuola ad un livello di dignità, di impegno, di responsabilità, di credibilità, di autorevolezza e di rigore?

Si possono riformare gli esami senza riformare la scuola? Che senso ha riformare le prove di maturità in una scuola in cui i periti seguono i loro corsi di studio in edifici dove le officine sono inesistenti od ossidate? I laboratori dimessi o pur essi mancanti? Che senso ha riformare le prove di maturità in istituti in cui docenti e assistenti di materie tecniche guadagnano molto fuori dalla scuola, dando ad essa l’importanza ed il valore di quel poco che lo stipendio sta a voler dire in rapporto ai forti compensi professionali extrascolastici? A che vale riformare le prove di maturità in una scuola nella quale insegnanti di materie letterarie rimangono ancorati alla biografia, alla data, alla nozione manualistica? Quale senso può avere la riforma delle prove di maturità in un liceo scientifico che non si sa più cos’è o in un liceo classico che condensa filosofia greca e medioevale (circa venti secoli di speculazione, e quale speculazione!) in un anno soltanto e riserva, viceversa, l’intero ultimo anno di corso alla filosofia contemporanea (poco più di un secolo!), di non rilevante peso, in molteplici suoi aspetti, essendo la grande filosofia finita contestualmente alla morte di Hegel, nel 1831?

Che senso ha riformare gli esami in una scuola secondaria che ha liberalizzato l’accesso all’Università, consentendo scelte di per sé impossibili e, a lor volta, pertanto, causa di disillusioni traumatizzanti? La scuola – si voglia o meno – è una piramide che va ricostruita e risanata dalle basi, in quanto, come ho avuto agio di evidenziare in altre e innumerevoli circostanze, la nostra civiltà, la civiltà c.d. occidentale, riposa su di essa e sulla sua impostazione pedagogico-didattica. E’ ben vero che il naturale evolversi del patrimonio antropologico e intellettuale, unitamente alla decadenza dei costumi del nostro infelice e sfortunato Paese – la cui infelicità sorge, appunto, dalla eccessiva flessibilità dell’habitus morale – sollecita l’introduzione di serie riforme, ma parimenti indiscutibile è che il sapere che la scuola deve trasmettere, il nostro retaggio greco – latino – cristiano, è ciò che di più significativo esista sotto il profilo “scientifico”, è ciò che, in modo commovente, lega, in un unico tessuto di teorie, di idee, di concetti, di immagini e di similitudini, gli uomini che da venticinque secoli abitano le regioni occidentali del globo, creando, così, il più invisibile, ma, nel contempo, il più tenace vincolo tra le menti, malgrado ogni differenza di spazio e di tempo: è la cultura mediterranea, sgorgata e fiorita sulle sponde di questo piccolo-grande mare.

Ogni volta, dunque, in questo periodo, rimemoriamo quell’epoca felice della nostra esistenza, l’epoca, cioè degli anni di studenti liceali, che la magia del ricordo, congiunta all’incanto dell’età, ci fa desiderare di rivivere, in cui personalmente ho inteso, ancor più a fondo, anche in grazia degli insegnamenti di mio padre – ingegno eccezionalmente acuto, versatile e brillante, la cui dottrina mi ha lasciato sempre ammirato, dal quale ho appreso la passione profonda per gli studi classici – le vicende di quella civiltà del Mar Mediterraneo, sulle cui rive siamo nati e sui cui lidi operosamente viviamo: rive e lidi che, sospesi su paesaggi seducenti, adagiati su “sacre” reliquie di storia dei nostri avi, parlano a noi e offrono un’autentica prospettiva di fuga dall’illogica deriva sociale del nostro tempo.