Democrazia tra liberalismo, socialismo e cultura

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di Antonio Calicchio

   Al fine di dare una definizione minima di “democrazia”, occorre offrirne una puramente e semplicemente procedurale, vale a dire definire la democrazia quale metodo per assumere decisioni collettive.

Si chiama gruppo democratico quello in cui valgono almeno due regole per prendere le decisioni collettive: 1) tutti partecipano alle decisioni, direttamente o indirettamente; 2) le decisioni vengono prese, dopo libera discussione, a maggioranza. Trattasi della democrazia politica, tanto che una delle promesse, non mantenute, della democrazia è quella per cui la democrazia politica non si è estesa alla società e non si è trasformata in democrazia sociale. A rigore, una società democratica dovrebbe essere così, ed avere queste regole di funzionamento della democrazia nella maggior parte dei centri di potere; e il centro di potere in cui dovrebbe avvenire l’estensione delle regole democratiche è la fabbrica. Non esiste nella fabbrica un regime democratico; e le decisioni vengono adottate solo da una parte, mentre dall’altra parte esiste la possibilità di un controllo delle stesse, che, appunto, non vengono prese da tutte le parti che sono in gioco in quel centro di potere. In alcuni luoghi, le regole della democrazia sono state istituite, ma non vengono osservate, come accade nei partiti; essi sono delle associazioni che hanno delle regole democratiche per le decisioni collettive, ai sensi dell’art. 49 Cost., ma la loro democrazia è molto scarsa e limitata, come si verifica anche nei sindacati.

Sotto l’aspetto storico, va osservato che liberalismo e democrazia sono stati spesso contrapposti, allorché, però, di democrazia si forniva non la citata definizione formale e procedurale, bensì quella contenutistica e sostanziale. Cioè, quando per democrazia si intendeva una società egualitaria o, quantomeno, più egualitaria di quelle precedenti. Certo, se si intende per democrazia una società al massimo egualitaria, allora emerge un contrasto fra liberalismo e democrazia. Ma se si muove da una definizione procedurale, allora ci si rende conto che la democrazia non è altro che la naturale prosecuzione e conseguenza del liberalismo. Perché quest’ultimo ha affermato alcuni diritti fondamentali che erano i diritti di libertà, i cosiddetti diritti civili (diritto di libertà di associazione, di riunione, di stampa, di opinione, di religione, etc.). Con la democrazia, si è affermato, poi, un altro diritto fondamentale, quello che si chiama diritto politico, vale a dire il diritto di prendere parte alle decisioni collettive. All’inizio, vi erano Stati liberali che non erano democratici, perché prendevano parte alle decisioni collettive soltanto alcuni, generalmente gli abbienti, perché vi erano delle limitazioni di voto molto gravi, per le quali votava una piccola parte dei cittadini, il 2 o 3% di loro. Poi, via via, è avvenuta l’estensione del suffragio, e, oggi, negli Stati chiamati democratici, vi è il suffragio universale, maschile e femminile; vale a dire che vi è stata l’estensione del diritto politico a tutti. E questa estensione non è stato altro che un effetto dell’estensione di alcuni diritti fondamentali che erano stati invocati dal liberalismo. Da questo punto di vista, se si intende la democrazia sotto il profilo formale e procedurale, allora essa è la prosecuzione del liberalismo, nel senso che non vi è contrasto tra i due.

L’affermazione della democrazia sostanziale è stata fatta originariamente dai democratici radicali, tant’è vero che, all’inizio, per democrazia si intendeva una società più egualitaria; però, non par dubbio che la democrazia sostanziale sia uno dei grandi temi del socialismo. Si può qualificare il socialismo come quella corrente di pensiero e di idee che ha tentato di riempire la democrazia formale di certi contenuti, che sono non solamente l’uguaglianza giuridica, ma anche quella di fatto, sociale ed economica. Ed oggi, una certa tendenza verso un maggiore egualitarismo, ovverosia una maggiore eguaglianza di tutti in molte cose, esiste. Questa è una delle caratteristiche delle società contemporanee ed è indubbiamente un modo per dare sviluppo, maggiore sostanza e contenuto ai regimi democratici. Uno dei criteri sulla cui base si debbono distribuire i beni è anche il merito, come avviene nella scuola, in cui non ha senso distribuire un voto uguale a tutti; mentre, di fronte a coloro che sono emarginati dalla società, il criterio non è quello del merito, ma è quello del bisogno. Del resto, lo stesso Marx sosteneva di dare a ciascuno secondo la capacità e a ciascuno secondo il bisogno.

Tuttavia, non vi sono mai state classi dirigenti che abbiano anteposto l’interesse collettivo a quello del proprio gruppo. Ma cos’è l’interesse nazionale, l’interesse collettivo, il bene pubblico? E’ estremamente difficile definirli. In linea generale, coloro che comandano e che hanno le leve del potere intendono per interesse nazionale e collettivo quello preminente e prevalente del proprio gruppo. Anche nelle società democratiche vi sono gruppi di interesse, vi sono i partiti, vi è la maggioranza che è composta di certi partiti ad esclusione di altri. E non si può essere veramente sicuri che questo sia l’interesse nazionale.

Oggi, è difficile distinguere la rappresentanza di interessi da quella politica. Numerosi rappresentanti politici, ossia membri del parlamento, nonostante il divieto di mandato imperativo, tuttavia rappresentano degli interessi. Hanno spesso un mandato vincolato dal partito. Tanto vincolato dal partito che, se non eseguono le direttive di quest’ultimo, allora vengono eliminati. E’ vero che il partito, a rigore, non è una corporazione, non è un ceto che ha degli interessi determinati, specifici, concreti, precisi; ma è altrettanto certo che ogni partito dovrebbe rappresentare vari interessi, tant’è vero che si dice che la funzione del partito sia quella di aggregare gli interessi. Però, in un sistema politico, quale quello italiano, in cui vi sono molteplici partiti, vi è il rischio che ognuno di essi diventi, poco a poco, un gruppo di interessi. Si ha il rischio che il partito si trasformi in gruppo di interessi; ed allora, in questo caso, il rappresentante politico diventa, attraverso il partito, un rappresentante di interessi. Avviene spesso il contrario, laddove dovrebbe esserci una rappresentanza di interessi; mentre il parlamento è definito mediante la rappresentanza politica, i sindacati vengono definiti in forza della rappresentanza di interessi. Un rappresentante sindacale non deve fare gli interessi di una nazione, non deve tutelare interessi collettivi, non deve perseguire il bene comune, ma deve fare gli interessi di quei lavoratori che rappresenta. Siccome questa è una rappresentanza di interessi, dovrebbe essere una rappresentanza vincolata, nel senso che il sindacalista, che dovrebbe rappresentare la categoria, agisce spesso come se avesse un mandato libero. Ed ecco che, in questo caso, la rappresentanza di interessi diventa una rappresentanza politica, mentre la rappresentanza politica spesso diventa rappresentanza di interessi. Pertanto, la distinzione tra rappresentanza di interessi e quella politica, che sembrava netta all’inizio della storia della democrazia rappresentativa, è molto meno netta di quello che si credeva. Da una parte, l’elettore dà all’eletto il voto, dà un sostegno, cioè gli consente di avere una certa quota di potere (ed infatti, un eletto ha tanto più potere, quanti più voti ha); dall’altra parte, l’eletto o l’eligendo promette, in cambio del voto, alcuni beni che, in genere, vengono dati attraverso le risorse pubbliche di cui l’uomo politico dispone (come la pensione, la facilitazione fiscale, il posto di lavoro o la leggina ad hoc). E questo rapporto ha un nome noto e comune che è “rapporto clientelare”, fondato su un vero e proprio “do ut des”, scambio, non economico, bensì di beni che sono nel “mercato politico”. Questa è una delle caratteristiche della democrazia. Inizialmente, la democrazia rappresentativa era sorta con l’idea che la legittimazione dovesse venire per il tramite dell’opinione pubblica e di quel voto che si chiama voto d’opinione; oggi, si ritiene che il voto d’opinione stia diminuendo rispetto a quel voto che si denomina voto di scambio, che, dal 1992, è previsto e punito come reato, nel nostro ordinamento, avendo il legislatore introdotto l’art. 416 ter, nel codice penale, così da attribuire specifica rilevanza a questo fenomeno.

 

In politica sono necessari l’essere e il dover essere, il programma minimo e il programma massimo; nelle società complesse vi sono dei problemi che devono essere risolti di volta in volta. Nessuna classe politica può fare a meno della politica contingente, di quella della congiuntura, ma deve porsi il problema degli scopi ultimi. I partiti riformatori, devono avere delle mete ideali, perché soltanto in virtù di questo criterio – delle mete ideali che possono essere l’uguaglianza, la libertà, il benessere – si può distinguere un provvedimento di riforma; e una legge di riforma è tale in quanto ispirata ad un valore ideale non riconosciuto in una determinata circostanza. La politica non si può fare, quindi, senza avere degli ideali davanti a sé. I partiti riformatori si distinguono da quelli conservatori proprio perché, volendo trasformare la società, necessitano dei principi, degli ideali che giustifichino la trasformazione. La differenza tra riformatore e conservatore è che quest’ultimo non ha bisogno di giustificare la conservazione; ed invece, colui che vuole riformare, deve giustificare la trasformazione, ricorrendo ai principi. Ciò significa, secondo Bobbio, che il politico riformatore deve essere ispirato da ideali, mentre quello conservatore può essere ispirato da interessi.

Per quanto concerne il rapporto fra teoria e pratica, è da rilevare che la politica e la cultura, l’azione politica e le idee corrono spesso su due piani paralleli che si incontrano in rari momenti, che sono quelli rivoluzionari, della trasformazione radicale. In tal caso, la cultura, le idee influiscono, e gli uomini di cultura si impegnano anche politicamente, assumono direttamente delle responsabilità. Ma nei momenti tranquilli della storia, la politica compie una strada diversa da quella della cultura.

Ma, oggigiorno, la rivoluzione è ormai impossibile, visto che, come diceva Hegel, la rivoluzione è il conflitto tra due volontà: la volontà del signore e quella del servo. Nel ’68, ad es., c’erano Agnelli e la classe operaia. Adesso, sia il servo, che il signore sono dalla stessa parte, e sopra cosa c’è? Il mercato. E chi è il mercato? Il mercato è “nessuno”! E’ vero che Omero ci ha detto che nessuno è sempre il nome di qualcuno. Ma chi è questo qualcuno? E’ il non-luogo, è l’impersonalità. Pertanto, non resta altro che sostituire l’ideologia – liberale, capitalistica, socialista – con la cultura, la civiltà, la coscienza, l’estetica, che rappresentano l’unico futuro per la sopravvivenza della buona politica al servizio del buongoverno. Bisognerebbe fondare il Partito della Cultura Italiano, su cui ricostruire una rinascita di questa civiltà partendo dalla decadenza che, in era democratica, ha prodotto la distruzione delle identità politiche. Ed infatti, stiamo assistendo alla distruzione della fisionomia delle nostre istituzioni. Purtroppo, la cultura è retaggio del passato; ora, non si sa più che cosa è bello, che cosa è buono, che cosa è santo, che cosa è vero, che cosa è giusto: si sa solo che cosa è utile, perché l’Occidente ha assunto ormai come unico valore universale, cioè come generatore simbolico di tutti i valori, il denaro. Vittorini sosteneva: “la cultura aspira … al potere attraverso una politica che sia cultura tradotta in politica, e non più interesse economico tradotto in politica”. Ma la cultura deve essere anche praticata e concretizzata, e non solamente enunciata sul piano accademico: occorre pensare per fare, coltivando nelle coscienze il valore dell’umanesimo, della dignità, della responsabilità e della speranza.