“Dal corpo neutro al cyborg post umano”, un’analisi appassionata su come una lotta di liberazione si sia trasformata in un inganno del potere

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Una critica  serrata e documentata all’ideologia gender dal punto di vista femminista. Per l’autrice, Silvia Guerini, il concetto di identità di genere sarebbe la porta d’ingresso del transumanesimo. 

di Andrea Macciò

 Con il suo Dal corpo neutro al cyborg postumano. Riflessioni critiche all’ideologia gender” Silvia Guerini porta avanti una serrata critica dal punto di vista femminista alla cosiddetta “ideologia del gender”.

Prima di proseguire è necessario un breve inciso per capire di che cosa si stia parlando.

Nel corposo volume del 1989 Gender Trouble la filosofa americana Judith Butler, in aperta polemica con il pensiero femminista della differenza che tendeva a naturalizzare i dati biologici, cercava di dimostrare come non solo il “genere”, ma anche il concetto di corpo sessuato siano una costruzione culturale e sociale. “Il genere può essere assunto come una significazione assunta da un corpo” afferma Butler (1990, ed.it 2017).

Questo libro determinò una rottura significativa nel mondo del femminismo rispetto appunto al fatto che il “corpo sessuato” sia un dato biologico o socioculturale.

Secondo quella che l’autrice definisce “ideologia gender” elaborazione adattata della teoria di Butler, il sesso non sarebbe un dato biologico ma un costrutto sovrastrutturale “assegnato alla nascita” e perciò modificabile.

Il libro di Silvia Guerini, in forma di appassionato pamphlet, ma assolutamente rigoroso nella ricerca delle fonti e dei riferimenti, si propone di analizzare in maniera critica le ricadute contemporanee di queste tesi e di quelle del cosiddetto “cyberfemminismo” rappresentato in particolare dal pensiero di Donna Haraway, teorie affermatesi negli anni Novanta.

La tesi fondamentale del libro di Silvia Guerini è che dietro la grande attenzione mediatica alle rivendicazioni del movimento Lgbtq+ non vi sia l’interesse per i diritti di una minoranza della popolazione, ma un’agenda ben precisa portata avanti da poteri economico-finanziari legati alla tecnoscienza e al capitalismo della sorveglianza, l’industria del digitale e del farmaceutico.

Come è stato possibile trasformare una lotta di liberazione in quello che l’autrice considera un raffinato inganno del potere?

La risposta si trova nel pensiero di Michel Foucault (tra l’altro, uno dei riferimenti culturali di Butler).

Il filosofo francese ne “La volontà di sapere” e negli altri volumi della Storia della Sessualità mostra come dalla modernità in poi il potere più che reprimere la sessualità abbia trasformato i comportamenti sessuali in oggetti di sapere e non di potere.

I poteri legati agli interessi della tecnoscienza, del farmaceutico e del digitale non vi è dubbio abbiano investito in modo ingente nel corso dell’ultimo ventennio in particolare nel trattamento medico della cosiddetta “disforia di genere” anche nel caso di giovani e adolescenti.

Se un ragazzo o una ragazza si comportano in modo difforme agli stereotipi di genere, consuetudini stratificate nell’immaginario collettivo e sociale, o mostrano attrazione per persone dello stesso sesso, secondo un discorso oggi molto diffuso sarebbero “nate in un corpo sbagliato” e l’unica soluzione sarebbe quella di trasformarlo, con una transizione “di genere” FtM o MtF (molto più diffusa) tramite l’assunzione di ormoni e la chirurgia.

Silvia Guerini critica aspramente questo approccio, ritenendo che in questo modo non solo si apra “un mercato delle identità”, ma che questo approccio alla disforia di genere sia una versione postmoderna e politicamente corretta della “terapie di conversione” alle quali venivano costretti sino a non molti anni fa gli omosessuali. In luogo di contestare gli stereotipi e le pressioni sociali, come ha storicamente fatto il femminismo, questo approccio secondo l’autrice li rafforza e li eternizza, ritenendo che il problema non siano i meccanismi sociali gli stereotipi stessi, ma la persona stessa, nata “in un corpo sbagliato” da correggere.

In questa parte, l’argomentazione di Silvia Guerini è davvero inappuntabile.

Non c’è dubbio che la medicalizzazione e la spinta al trattamento chirurgico della disforia di genere siano dispositivi di potere dietro alle quali agiscono enormi interessi economici. L’autrice ricostruisce con numerosi esempi questo slittamento semantico, mostrando come al centro di questi processi ci siano istituzioni come la “Fondazione Tavistock and Portman” definita nel 1921 “il ramo psichiatrico dell’Impero britannico” e come le operazioni di transizione permettano potenzialmente a una scienza senza scrupoli la presa in carico e la sperimentazione del vivente.

L’autrice critica in modo serrato anche la prospettiva “cyberfemminista” rappresentata in particolare dalla filosofa americana Donna Haraway, che negli anni Novanta vedeva nella fusione dell’organico con l’inorganico e nella cancellazione dal legame tra procreazione e sessualità una prospettiva di liberazione della donna e del genere umano in generale.

Anche nel recente Chtulucene Haraway arriva a delineare un mondo tra l’utopico e il distopico, e nel capitolo I bambini del compost una società governata da scienziati dove i bambini nasceranno tramite la riproduzione artificiale.

Se negli anni Novanta tale prospettiva poteva sembrare liberatoria, oggi il legame tra progresso scientifico e libertà individuale è saltato, come già sottolineava nel suo Stati Nervosi il sociologo inglese William Davies, e come è stato evidente a tutti durante i tre anni della “pandemia”, anni nei quali la scienza si è adoperata per promuovere il controllo totale sulle vite e i corpi delle persone.

La fondazione “patriarcale” del discorso e della scienza, come sosteneva la filosofa Luce Irigaray nel suo Speculum (1974) avrebbe quindi portato la tecnoscienza di oggi a una presa in carico della vita a partire dalla nascita, potenzialmente in grado di cancellare la maternità e la femminilità stessa.

Una delle obiezioni avanzate da Guerini e dal femminismo radicale è che le persone trans MtF rivendichino non tanto uno spazio autonomo, ma lo spazio e i diritti tradizionalmente rivendicati dalle donne e secoli di oppressione della donna stessa. Dallo stesso punto di vista Guerini porta avanti una critica serrata alla pratica della maternità surrogata.

L’approccio della critica femminista radicale alla teoria del gender si distingue da quello della destra conservatrice e dei movimenti religiosi e confessionali (come l’italiano Pro Vita e Famiglia o il francese Le Manif pour Tous)  in quanto riconosce la natura socialmente costruita del genere, degli stereotipi ad esso associati e dell’istituzione familiare, ovvero il dispositivo con il quale la società disciplina le relazioni sessuali tra persone e la procreazione, rivendicando il concetto di “corpo sessuato” come dato biologico pre-esistente al discorso.

Se non vi è dubbio, come sostiene Guerini, che intorno alla medicalizzazione della disforia di genere si muovano poteri e interessi mossi da intenti totalmente diversi dalla liberazione delle persone dall’oppressione sociale, è lecito porsi qualche domanda invece sulla parte a tesi del suo libro: ovvero quella nella quale si sostiene che dietro le rivendicazioni l’aggiunta dei suffissi TQ+ alle lotte del movimento Lgb negli anni 2000 e alla presa in carico da parte di medicina e psichiatria della “non conformità di genere” vi sia un unico disegno ideologico mosso sostanzialmente dagli esponenti del movimento transumanista per trasformare il corpo umano “sessuato” in un corpo fluido e neutro, cancellando il legame tra procreazione e sessualità tramite la riproduzione artificiale in nome di un mondo post-umano e post-naturale.

Come afferma in un articolo del 2021 Jennifer Billek citato da Guerini, il concetto di identità di genere sarebbe la porta d’ingresso verso il transumanesimo.

L’articolo, tradotto da Marina Terragni, teorizza che ci sia una lobby di miliardari del settore “farmaceutico e tecnologico” che lavorino per “il desexing del corpo umano” ovvero per svincolare la percezione della propria identità personale dal dualismo maschio/femmina.

Queste argomentazioni, per quanto interessanti e non infondate, presuppongono che i poteri che oggettivamente hanno orientato in senso medico e psichiatrico il discorso della disforia di genere, depoliticizzandolo e astraendolo dal contesto sociale, agiscano con uno scopo ben preciso e che soprattutto il loro agire sociale sia orientato in senso ideologico verso un modello distopico di società ideale sostanzialmente trans-umana o almeno post-umana.

L’incarnazione del sogno, o dell’incubo, cyberfemminista di Donna Haraway.

Per quanto ci siano alcune persone con grande potere economico e sociale vicine alla tesi del movimento transumanista, non è così scontato che la loro influenza sia così estesa da orientare in maniera così pervasiva i fenomeni sociali.

Su questo aspetto mi sembra più probabile che questi poteri abbiano intercettato istanze effettivamente presenti nella società a partire dagli anni Sessanta e Settanta con la crisi progressiva e probabilmente irreversibili dei modelli “di genere” che intrappolavano maschi e femmine in ruoli predeterminati per piegarle ai loro interessi.

Appare altrettanto arbitrario affermare che una persona dall’identità sessuale “fluida” possa essere maggiormente manipolabile di un’altra in termini politici e sociali.

Un altro punto da sottolineare è che occorre distinguere tra la teoria del gender di Judith Butler, che in nessun passo del suo libro si dichiara a favore della medicalizzazione della disforia di genere e dell’uso della chirurgia, e quella cyberfemminista portatrice di una fiducia incondizionata nel potere liberatorio della scienza. In Gender Trouble, Butler sottolinea, analizzando la storia di Herculine Barbin raccontata da Foucault, come una persona che non si identificava nel cosiddetto binarismo sessuale sia stata costretta a ricorrere alla chirurgia per assumere un aspetto maschile e rientrare in questo modo nei ranghi di quello che è classificabile (si trattava di una persona che presentava una forma di ermafroditismo alla nascita, registrata come femmina e attratta dalle donne).

Forse, eliminando del tutto le pressioni sociali a conformarsi a un modello, a uno stereotipo di genere e a definirsi in un ruolo “sessuato” per la minoranza di persone difficilmente classificabili nel modello “binario” si renderebbe potenzialmente non attraente e inutile il ricorso alla medicina e alla chirurgia, depotenziando in questo modo anche la possibile presa in carico di queste istanze dai poteri “transumanisti”. In questo senso le posizioni del femminismo radicale e di Butler, che nel suo scritto è spesso iperbolicamente provocatoria, potrebbero trovare un punto d’incontro nel rifiuto della presa in carico della vita (e anche della procreazione) da parte del potere medico e psichiatrico.

Per permettere questo, sarebbe necessaria una presa di distanza della critica femminista alla teoria del gender dagli approcci confessionali e conservatori, per i quali invece non solo il sesso biologico, ma anche i ruoli sociali e le strutture familiari sono “naturali”. Questi approcci non sono infatti meno oppressivi per le persone di quello scientista e postumano, e non a caso molti esponenti di quest’area sono tuttora a favore delle “terapie di conversione” per gli omosessuali. Una presa di distanza che non sempre è chiarissima, in quanto forse si considera il rischio dell’ipercontrollo postumanista maggiore di quello di una deriva neo-reazionaria.

L’approccio femminista “umanista” di Guerini appare invece del tutto inconciliabile con quello cyberfemminista, che con la centralità assunta dalla tecnoscienza nell’investire in dispositivi di potere i corpi delle persone ha mostrato negli anni della “pandemia” la sua natura distopica.

Dal corpo neutro al cyborg postumano rimane comunque un libro molto interessante e stimolante, che ha il coraggio di affrontare in maniera seria, appassionata e documentata temi che sono diventati centrali in una società nella quale, come aveva previsto Foucault, la presa in carico della vita da parte del potere è diventata la nuova frontiera della politica, anzi della bio-politica.

 

 

 

Andrea Macciò