Costituzione italiana e Dichiarazione universale dei diritti umani, un ponte fra generazioni con diritti e doveri

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di Antonio Calicchio

Oggi, si assiste, in termini generali, ad una regressione della considerazione, della garanzia e della tutela dei diritti, siano essi catalogabili come fondamentali, come civili o come sociali.Vale a dire che si è approfondito il solco fra il diritto scritto e quello praticato, fra i diritti riconosciuti e quelli garantiti. Era inimmaginabile che, nel terzo millennio, lo scenario dei diritti si sarebbe presentato a tinte fosche, suscitando allarme. Diritti “deboli”, quindi: non soltanto i diritti dei soggetti deboli, i malati, gli anziani, i minori, gli immigrati, i poveri, cui occorre sovvenire, nei limiti consentiti dall’attuale legislazione e in adempimento di un dovere sociale, ma anche i diritti che, seppur “forti”, sotto il profilo della loro garanzia costituzionale, tuttavia sono deboli, in quanto non trovano, nella macchina giudiziaria, e, spesso, anche nell’apparato istituzionale, un’idonea tutela; e mi riferisco, in particolare, ai diritti civili e al giusto processo. Vi sono, inoltre, diritti deboli perché controversi; e vi sono, ancora, diritti deboli perché la legge non è chiara: ma la debolezza non è intrinseca all’applicazione della legge; l’oscurità della legge, che dovrebbe essere ragione di imputazione di una colpa al legislatore che l’ha scritta, diviene un’esimente, ossia una ragione di esclusione di colpa del danneggiante.

Diritti forti divenuti deboli, diritti deboli perché controversi, diritti deboli perché riferiti a soggetti deboli. In questo variegato e preoccupante contesto, giova rilevare le lacune della legge, la lesione dei diritti, l’uso dei rimedi giurisdizionali: è necessario difendere i diritti – anche oltre i confini nazionali – e non scendere a compromessi col potere economico o politico, conservando sempre l’indipendenza e l’autonomia. E’ un imperativo etico-sociale, questo, che, oggi, più che mai, importa tener presente.

Del resto, l’informazione e la difesa dei diritti sono i campi di impegno contro i quali storicamente si accaniscono i regimi totalitari e dittatoriali. Oggi, in Paesi come l’Iran e la Cina, Internet è sotto controllo, i siti più insidiosi per il regime, oscurati; spesso, i dissidenti affidano a Twitter i loro messaggi in bottiglia. E se nel 2010, l’attribuzione del Premio Nobel per la pace al dissidente cinese Liu Xiaobo e la dura reazione del governo cinese hanno fatto il giro del mondo, poco si sa e poco si parla dei numerosi soggetti che, nei vari Paesi del mondo, sono in trincea per la promozione dei diritti umani, sino a pagare il proprio impegno con la vita.

Dal 2007 al 2009, ad es., sono stati ca. 40 gli avvocati che, nel mondo, hanno subito minacce o ingiusta detenzione per il solo fatto di impegnarsi sul fronte dei diritti umani. Dalla Cina alla Malesia, dal Pakistan (in cui sono stati tratti in arresto 1500 avvocati, dopo la dichiarazione di stato di emergenza) al Sudan, è impressionante la lista delle persone e delle vicende che, talvolta, ha portato a conseguenze drammatiche.

Nella storia del sec. XX, campeggia la figura di Gandhi, tra coloro che si sono battuti per la libertà, i diritti umani, in favore dei deboli, contro l’oppressione, la schiavitù, la discriminazione. “La mia vita per la libertà”, di Gandhi, evidenzia proprio come la responsabilità etico-sociale di salvaguardia dei diritti e l’impegno civile coraggioso possano allearsi mirabilmente.

Tuttavia, in Occidente, una lacuna morale e civile emergente è quella che consiste nell’oblio dei doveri, talché il diritto, separato dalla responsabilità ad esso inerente, diviene elemento di disgregazione e, non di rado, arma puntata contro l’altro. Vi è stata, e vi è tuttora, una forte “politica dei diritti”, non accompagnata da una politica dei doveri.

I pensatori del diritto naturale: Sofocle, gli Stoici, Cicerone, Seneca, Marco Aurelio, Epitteto, Paolo di Tarso, Tommaso d’Aquino andrebbero considerati antesignani della questione dei diritti, benché ponessero l’accento più sui doveri. Nel passaggio dai diritti naturali riconosciuti all’epoca del liberalismo classico ai diritti umani attuali il loro ventaglio si è enormemente allargato, e non cessa di estendersi, ma soprattutto il loro modo di intendersi è, spesso, soggetto ad un notevole relativismo, la cui cultura si è abbattuta sui diritti umani, col rischio di annichilire la loro stessa nozione: ove tutto può divenire diritto, nulla è realmente diritto.

Varie enunciazioni della Chiesa e riflessioni filosofiche si mostrano un valido riferimento per dar voce all’istanza dei doveri, e non solamente ai diritti.

Col Concilio Vaticano II, questi hanno fatto più ampiamente ingresso nell’insegnamento della Chiesa, sotto l’egida della libertà religiosa, ma senza una piena sovrapposizione con altre prospettive, e senza dimenticare i doveri. L’enciclica Pacem in terris si impernia sulla nozione di natura umana per giustificare diritti e doveri; la persona è soggetto “di diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente  dalla sua stessa natura, diritti e doveri sono perciò universali, inviolabili, inalienabili”. Giovanni Paolo II non si limita a ribadire il nesso diritti-doveri, ma esprime un giudizio critico sulla renitenza generale a richiamare i doveri: “la comunità internazionale, che dal 1948, possiede una carta dei diritti della persona umana, ha trascurato di insistere adeguatamente sui doveri che ne derivano. In realtà, è il dovere che stabilisce l’ambito entro il quale i diritti devono contenersi per non trasformarsi nell’esercizio dell’arbitrio. Una più grande consapevolezza dei doveri umani universali sarebbe di grande beneficio alla causa della pace, perché le fornirebbe la base morale del riconoscimento condiviso di un ordine delle cose che non dipende dalla volontà di un individuo o di un gruppo”. Sulla medesima linea concettuale, si sono posti Benedetto XVI e il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa.

L’idea di una obbligazione verso l’altro è più originaria di quella del mio diritto: il volto dell’altro mi interpella ancor prima che ne prenda coscienza, suscita in me il sentimento che gli venga riconosciuto un bene, un valore, una esigenza che risiede in lui. Il diritto dell’altro accende l’obbligo universale di riconoscergli quanto gli è dovuto e contestualmente la possibilità per l’io di rivendicarlo per sé. Simone Weil aveva posto l’accento sull’anteriorità dell’obbligazione sul diritto. Nell’opera L’enracinement. Prélude à une déclaration des devoirs envers l’etre humain, pubblicata, in Francia, nel 1949, scrisse: “La nozione di obbligo sovrasta quella di diritto, che le è relativa e subordinata. Un diritto è efficace non di per sé, ma solo attraverso l’obbligo cui esso corrisponde; l’adempimento effettivo di un diritto proviene non da chi lo possiede, bensì dagli altri uomini che si riconoscono, nei suoi confronti, obbligati a qualcosa. L’obbligo è efficace allorché viene riconosciuto. L’obbligo, anche se non fosse riconosciuto da nessuno, non perderebbe nulla della pienezza del suo essere. Un diritto che non è riconosciuto da nessuno non vale molto”.

Nel corso della preparazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, di cui, il 10 dicembre – data nella quale venne adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, a Parigi – è ricorso il 70° anniversario, talune voci si erano levate allo scopo di ricordare la rilevanza dei doveri, specie quella di René Cassin, il cui elenco dei doveri venne diminuito, sino alla finale breve sopravvivenza presente nell’art. 29.

E’, a questo riguardo, da sottolineare come la nostra Costituzione repubblicana, entrata in vigore anch’essa nel 1948, all’art. 2, sancisca: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. E cioè, la Costituzione, attraverso questa norma, afferma ciò che si è definito il c.d. principio personalista, quello che, ripudiato l’oppressivo rapporto Stato-cittadino che aveva caratterizzato il regime fascista, rivendica il primato della persona umana rispetto allo Stato e ad ogni altro potere, ponendo al vertice dei valori su cui si fonda l’ordinamento quello del rispetto della dignità dell’uomo, che va sempre considerata come fine dell’azione statale, mai come mezzo. Tuttavia, merita osservare che detto articolo, anzitutto, nell’impiegare il verbo “riconoscere”, vuole intendere che non è la Repubblica che assegna i diritti inviolabili, ma che essi già esistono a prescindere da qualsiasi attribuzione statuale: lo Stato può soltanto prendere atto della loro esistenza e apprestare loro la garanzia del diritto. Una parte degli studiosi – quelli di ispirazione cattolica – ha inteso intravedere in questa disposizione un riferimento all’esistenza di diritti naturali, spettanti all’uomo in quanto tale. Comunque, è certo che i diritti inviolabili  si identificano, oltreché in taluni diritti primari (ad es. alla vita), nelle libertà civili che – a partire dalle grandi dichiarazioni dei diritti della fine del sec. XVIII – si sono storicamente affermate come essenziali al fine di dar luogo ad un ordinamento ispirato a principi liberali. In secondo luogo, ci si chiede: quale significato conferire all’aggettivo “inviolabili”? Sembrano da evitare interpretazioni che tendano a ridurre la dichiarazione di inviolabilità ad un mero principio politico (essendo, quelle costituzionali, sempre norme giuridiche) o che ritengano che “inviolabili” significhi non limitabili giuridicamente (dal momento che è la stessa Costituzione che, disciplinando quelle libertà, vi appone dei limiti). Esiste, poi, l’interpretazione (come detto, di ispirazione cattolica) che tende a scorgere, nella dichiarazione di inviolabilità, un rinvio a concezioni giusnaturalistiche, ovverosia un riconoscimento dell’esistenza di diritti naturali immutabili e trascendenti l’ordinamento positivo. Appare, altresì, l’interpretazione secondo cui “inviolabili” significa “non revisionabili”, cioè non soggetti al potere di revisione costituzionale. In terzo luogo, l’art. 2 della Costituzione dispone che i diritti inviolabili dell’uomo, che la Repubblica riconosce, sono ad esso garantiti “sia come singolo, sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità”. Ma, dopo aver proclamato il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, la seconda parte dell’articolo conclude affermando che la Repubblica “richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica, sociale”. La nostra Costituzione prevede, quindi, una sorta di simmetria, di derivazione mazziniana, fra diritti inviolabili e doveri inderogabili, coniugando, nell’ambito di un unico articolo, il principio personalista e quello solidarista: il primo, come matrice di fondo del catalogo delle libertà civili; il secondo, come fondamento dei doveri  imposti al cittadino o a “tutti” dalla Costituzione stessa o da leggi ordinarie. Per quanto attiene ai doveri, si deve precisare che essi costituiscono le varie  direzioni in cui si concretizza, sul piano giuridico, il principio di solidarietà, principio volto a valorizzare il momento comunitario e le esigenze dello Stato sociale nel contesto complessivo dell’ordinamento; sul piano politico-ideologico rappresenta un punto di confluenza tra ispirazione cristiano-sociale e ispirazione laico-socialista della Carta costituzionale.

Costituzione repubblicana italiana e Dichiarazione universale dei diritti umani, entrambe – ripetesi – del 1948, sono il meglio che si possa consegnare alle generazioni future. Chi ha redatto questi testi, ha lasciato una concezione della vita, ha offerto dei principi generali che hanno trovato collocazione in quelli che si definiscono diritti fondamentali dell’uomo. Bisogna, dunque, tornare alle radici; e, quanto alla Costituzione, va notato che essa, nella convivenza civile, rappresenta proprio le nostre radici più profonde, poiché fornisce una visione di vita ed un insieme di principi fondamentali per l’uomo. La conoscenza di questo testo è uno dei migliori insegnamenti culturali che si possa dare alle future generazioni. Tralasciando i primi 12 articoli, nel testo si trova la libertà personale come inviolabile, la tutela della famiglia riconosciuta come “società naturale fondata sul matrimonio”, la tutela della salute “come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” e il diritto all’istruzione; e tutto ciò, altro non è che prendersi carico della persona nella sua concretezza e nella sua globalità. Pertanto, la Costituzione è un patrimonio che va conosciuto per entrambi gli aspetti: diritti e anche doveri. Oggi, si ritiene che debbano esistere unicamente i primi, ma è indispensabile conoscere la propria cultura, i propri valori, le proprie regole, le proprie tradizioni, anche in vista di una politica dell’integrazione e dell’intercultura: “Star bene nella propria cultura, in dialogo con le altre”.