Il senso di colpa del sopravvissuto

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2° Parte
A cura del Dottor Riccardo Coco

Dottor Riccardo Coco Psicologo - Psicoterapeuta
Dottor Riccardo Coco
Psicologo – Psicoterapeuta

Nella 1° parte ho descritto il concetto di “Sindrome del sopravvissuto” ed il relativo “senso di colpa del sopravvissuto”, in questa 2° parte è mia intenzione declinare tale concetto nella pratica clinica ed evidenziarne “aspetti inaspettati”: è infatti ovvio riscontralo in situazioni di lutto, data la sua definizione (in sintesi: “Quando eventi di catastrofici comportano la morte di un gran numero di persone (o comunque sopraggiunge la morte di una persona cara), accade che tra i sopravvissuti si manifesti la “Sindrome del sopravvissuto”, ovvero una sorta di trauma psichico legato alla buona sorte ed alla angosciosa domanda “Perché gli altri sono morti ed io no?”).

E’ invece interessante riscontrarlo nelle dinamiche familiari, laddove non è conseguenza di situazioni di lutto. Si parla infatti di “senso di colpa del sopravvissuto” anche in quelle situazioni dove una persona si deprime e si sente in colpa se sente di aver ricevuto più dei familiari, di essere stato per qualche motivo più fortunato dei fratelli o dei genitori, o di avere conquistato di più nella vita.

Mi spiego meglio: Modell (1971) sosteneva che le persone hanno “…un inconscio sistema di contabilità morale, cioè un sistema che tiene conto della distribuzione del “bene” disponibile all’interno di una famiglia nucleare (come se “lo stare bene” fosse una quantità finita che deve essere equamente distribuita tra i membri familiari), così che l’attuale destino degli altri membri della famiglia sarà determinato da quanto più è grande il “bene” che uno possiede. Se la sorte è stata severa con gli altri membri della famiglia, il “superstite” può provare senso di colpa, come se avesse ottenuto più di quella che è la quota del suo bene”.

E pertanto, e questa è la conseguenza patologica e disfunzionale di questo modo di pensare che va trattata in psicoterapia, egli sarà portato a punirsi per le cose belle ottenute dalla vita (finendo per fallire, autosabotarsi e “perdere” tutte le conquiste ottenute) o a rinunciarvi se può ottenere qualcosa che gli altri non hanno e lui potrebbe avere.

Dunque, spinto dal senso di colpa, potrà rinunciare ai successi lavorativi, alla felicità rispetto a realizzazioni familiari e personali, al successo, al vivere in un posto lontano tanto desiderato, ad avere un buon reddito economico, etc. insomma a tutte quelle “cose”, quegli obiettivi di vita e realizzazioni, che in quella famiglia o contesto culturale sono considerate “cose belle”; perché la sua mente pensa che ciò sarà automaticamente a spese di genitori, fratelli, partner, etc. che non possono accedere o non hanno potuto accedere nel corso della loro vita meno fortunata a tali “benefit”.

Come se, appunto, realizzare i propri desideri nella vita ed essere felici, o meglio, più felici dei familiari che non possono e non hanno potuto esserlo per varie e diversificate ragioni, fosse una colpa! Si può intuire come questo modo di ragionare sia disfunzionale conducendo ad una vita “bloccata”, che porta a sentimenti depressivi, di fallimento, rabbia e vuoto. Una vita vissuta all’insegna del “sacrificio” e sotto l’egemonia del proprio tirannico senso di colpa. Per fortuna, tuttavia, questo masochistico modo di pensare (causa di un “rigido Super-Io”, come probabilmente direbbe S. Freud), può essere modificato, magari attraverso la faticosa esperienza di una psicoterapia, ma può essere modificato.     

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