Perché non è stata acquisita la prova satellitare per Anna Maria Franzoni?

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A distanza di 16 anni dal tragico caso di Cogne continuano a sorgere dubbi sulle modalità dell’inchiesta che condusse alla condanna di Anna Maria Franzonidi Antonio Calicchio

Permane ancora viva l’impressione per il grave fatto di sangue verificatosi il 30 gennaio di sedici anni fa, a Cogne, in Val d’Aosta, che ha distrutto la vita di un bambino di tre anni, ucciso, secondo la Suprema Corte di Cassazione, dalla madre, Annamaria Franzoni, autoproclamatasi costantemente “non colpevole” – utilizzando un’arma, contro il figlio, Samuele, mai, peraltro, rinvenuta – la quale ha subito una condanna, in via definitiva, a sedici anni di reclusione, nel 2008. Esperiti, quindi, i tre gradi di giudizio – conclusisi tutti con sentenza di condanna – il “caso” può dirsi formalmente chiuso, ma il susseguirsi dei fatti, pur nella sua tragicità, merita ulteriore approfondimento di analisi.

Ed infatti, quella mattina di fine gennaio 2002, ha avuto origine una delle vicende di cronaca nera più seguite, discusse e controverse degli ultimi anni, nel nostro Paese, generando una rilevante risonanza  mediatica ed animando, al contempo, il dibattito pubblico e privato, tanto nelle aule giudiziarie, quanto nei programmi televisivi, al punto da dividere l’opinione pubblica in innocentisti e colpevolisti. Nella fattispecie, ha trovato una cruciale applicazione il presidio della c.d. prova scientifica, posta in essere dai Ris di Parma, coordinati dal gen. Garofano, mediante l’esame della Bpa (bloodstain pattern analysis), ovverosia l’analisi degli schizzi di sangue, muovendo dalla morfologia della macchia ematica; il quale esame avrebbe dimostrato che l’assassino indossasse il pigiama della madre, come, del resto, chiarito dallo stesso Garofano, nel suo saggio Il processo imperfetto.

Ma un’ulteriore prova, altrettanto determinante, non ha trovato ingresso – come avrebbe dovuto – in questa cruda e terribile storia giudiziaria, vale a dire quella della rilevazione satellitare. Si tratta, cioè, di una prova, la cui acquisizione forense avviene attraverso lo strumento della perizia, eventualmente giurata ed asseverata, eseguita su foto, appunto, di provenienza satellitare, che ne permette l’assunzione in giudizio, in copia conforme, certificata dal perito forense. E’ da considerare, inoltre, l’apporto che avrebbe potuto fornire allo svolgimento delle indagini e del dibattimento, anche quel sistema di rilevazione satellitare finalizzato al monitoraggio degli spostamenti della signora Franzoni, la mattina del 30 gennaio, tramite gps (global positioning system); sistema di posizionamento globale che, secondo i più recenti orientamenti giurisprudenziali, costituisce, a giusta ragione, una forma di pedinamento, sia pure elettronico, e non di intercettazione. Attività investigativa “atipica”, questa, la quale risulta assolutamente legittima, anche se, mancando una compiuta regolamentazione della materia, essa non deve porsi in contrasto con la tutela di diritti costituzionalmente garantiti.

Ed invece, l’esito del processo si è incentrato esclusivamente sull’esame della Bpa, senza che si invocasse l’assunzione della prova satellitare, che avrebbe potuto gettare luce in merito alla localizzazione della madre di Samuele al momento dei fatti.

E’ da sottolineare, comunque, che questa tipologia di prova, in particolare – insieme alla prova scientifica, in generale – non ha avuto, in Italia, finora, largo impiego, in confronto ad altri Paesi, per due ordini di motivi: 1) perché il nostro sistema giuridico non ha controllo sui periti, col rischio che nelle dinamiche processuali possa avere ingresso anche “pseudo-scienza”; 2) perché nelle nostre università è carente l’insegnamento di scienze forensi, il quale dovrebbe congiungersi a quello di psicologia criminale. Tuttavia, occorre precisare, al riguardo, che la prova scientifica non solo non può, in alcun caso, sottrarsi alle ordinarie norme di diritto penale e, tanto meno, alle garanzie previste e determinate dal nostro codice di procedura penale, come il contraddittorio, il diritto di difesa, le garanzie in ordine alle modalità di assunzione della prova scientifica; ma essa deve essere sempre affiancata, nell’accertamento penale, dai tradizionali mezzi di prova, come, ad es., la testimonianza, nel quadro della valutazione definitiva che soltanto il giudice farà di essa, prima di emettere la sua decisione finale.

Il processo a carico di Annamaria Franzoni, sebbene caratterizzato, quindi, dall’utilizzo della prova scientifica – di cui, forse, per la prima volta, l’opinione pubblica ha avuto una conoscenza mediatica – si è svolto, tuttavia, salvaguardando il confronto dialettico ed argomentativo delle parti, in conseguenza del quale l’imputata ha scontato in carcere una pena di sei anni ed attualmente si trova in regime di detenzione domiciliare, conformemente ad un principio della nostra costituzione, secondo cui le pene debbono avere una finalità rieducativa.

Ed infatti, il tempo della pena dovrebbe essere non un time out esistenziale, una clessidra priva di sabbia, bensì un tempo di opportunità al ritrovamento di sé e di un proprio ruolo sociale. Nessuna situazione personale, nessun genere di reato dovrebbero costituire esclusione dalle opportunità di recupero sociale. Il percorso risocializzativo deve essere modulato sulla persona e non sul fatto commesso. E’ inammissibile qualunque presunzione legale di irrecuperabilità sociale; e va riconosciuto al condannato il diritto alla speranza, poiché egli non deve pensare che il proprio impegno e le proprie decisioni rappresentino varianti insignificanti sul suo destino. Al contrario, la consapevolezza di poter incidere sulle modalità esecutive e sulla durata della pena si risolve in una spinta motivazionale in grado di promuovere evoluzioni psico-comportamentali. E tale spinta determina statisticamente un decremento della recidiva. Pertanto, più che essere manifestazione di “indulgenzialismo”, il riconoscimento di un diritto alla speranza è l’investimento socio-politico per l’inclusione dei membri di una collettività che la sappiano meritare. L’obbligo – morale, prima, ancora, che giuridico – della pena di “tendere” alla rieducazione, vuol dire che questa non può essere mai imposta, né certa, né impossibile; e che lo Stato è legittimato a privare il condannato della libertà, mai della dignità e della speranza.