UNA LEZIONE TUTTA ITALIANA

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Dal profilo facebook del sindaco Alessio Pascucci riportiamo questo commento.Qualche settimana fa durante una partita di calcio fra giovanissimi, l’allenatore di una delle due squadre ha lanciato un violento insulto razzista verso due ragazzi della squadra avversaria.

Il giorno stesso alcuni presenti mi hanno informato dell’accaduto. Ho deciso prima di tutto di capire meglio cosa fosse successo e ho avuto notizia di alcuni fatti sorprendenti:

– l’allenatore dopo questo gesto aveva deciso di dimettersi immediatamente dal suo ruolo;

– la mamma di uno dei due ragazzi insultati (nonostante le pressioni di altri genitori) non aveva nessuna intenzione di sporgere denuncia;

– l’allenatore ha un figlio di colore;

– alcuni genitori stavano criticando aspramente la decisione della mamma di non denunciare.

Dopo aver sentito telefonicamente tutti e avuto il loro benestare, ho deciso di invitarli in Comune per un confronto. E così ci siamo trovati tutti all’interno del mio ufficio: l’allenatore, la mamma e i due ragazzi. Ero prevenuto, non posso nasconderlo.

Poche cose mi fanno perdere la ragione come gli insulti razzisti; con l’aggravante poi che fossero stati destinati a dei giovanissimi e che tutto fosse avvenuto durante una partita di calcio. Non sapevo esattamente cosa sarebbe accaduto, ma già nella testa mi immaginavo scuse di circostanza e una frattura che non si sarebbe potuta sanare.

Mario, l’allenatore era invece visibilmente provato. Si è scusato, tantissime volte. Lo ha fatto spiegando che non era accettabile che nessuno compisse un atto così grave, meno che mai uno come lui, un educatore che avrebbe avuto il compito di insegnare il rispetto ai ragazzi. Per questo aveva deciso di dimettersi. E la decisione non era negoziabile.

Sorprendentemente non cercava scuse per giustificare il suo operato; tutt’altro: da solo ha esposto aggravanti a quanto accaduto (compreso il fatto che in passato i due ragazzi fossero stati suoi allievi). Da lui ho avuto la prima lezione. E non possono nascondere che la sorpresa è derivata anche dal fatto che sono sempre stato convinto che una persona che lancia un insulto razzista non voglia e non possa redimersi.

Poi è toccato a Nawal, la mamma del ragazzo marocchino, per altro rappresentante dei cittadini stranieri nella nostra città. È stata lucida, ha spiegato che non aveva nessuna intenzione di denunciare l’accaduto perché riteneva che quella brutta storia non dovesse avere un’amplificazione ulteriore, né tanto meno diventare una estenuante lotta mediatica fra le parti. Mi ha detto di conoscere da tanti anni Mario, di aver passato anche alcune piacevolissime serate insieme, con le rispettive famiglie. Era senza ombra di dubbio convinta che per quanto grave, si fosse trattato di un gesto isolato, da una persona che aveva invece sentimenti completamente diversi. Ci ha tenuto a sottolineare – e qui ho avuto la seconda lezione – che se predichiamo la tolleranza, dobbiamo essere i primi a metterla in pratica. Chapeau.

Alla fine è toccato a loro: hanno parlato i due ragazzi. Sorridevano e non in modo sarcastico o provocatorio. Stavano lì, seduti, tranquilli (eccessivamente tranquilli, ho pensato), di fronte alla persona che aveva pronunciato quelle parole così forti. Lo hanno chiamato “mister”, forse una reminiscenza dei passati allenamenti insieme. “Quello che accade sul campo – mi hanno detto – rimane sul campo”. La partita era finita e potevano permettersi di farsi scivolare addosso gli insulti, razzisti o meno. Sia chiaro: non erano disinteressati alla questione, anzi. Dimostravano una maturità che non riesco a spiegare e che sprizzava da quegli occhi vispi e attenti. Ho pensato che purtroppo in questa strana nazione che ha dimenticato le sue origini, forse dovevano essere abituati a un certo sguardo su di loro e, probabilmente (mi ferisce molto dirlo), forse erano anche abituati a parole come quelle. Attenzione quando dico abituati non intendo dire che quelle parole fossero loro indifferenti, tutt’altro. Semplicemente non era la prima volta che si trovavano in quella situazione (e forse non sarebbe stata l’ultima).

 

Ma stavolta era diverso: pensavano davvero che quell’uomo che conoscevano (e con il quale si sarebbero abbracciati davanti a me pochi istanti dopo), aveva sbagliato e aveva saputo riconoscere l’errore. Forse a questo erano meno abituati. Comunque per loro era sufficiente. Quelle scuse erano più che sufficienti. Non cercavano nessuna vendetta. Questa è stata senza dubbio la lezione più importante.

Il ragazzo ivoriano, il più grande dei due, quel giorno compiva diciannove anni. E mi sono subito chiesto come dovesse essere festeggiare il suo compleanno così; nell’ufficio del Sindaco, in quella situazione, con quegli occhi intensi che guardavano e sapevano perdonare chi lo aveva insultato.

A un certo punto mi sono trovato a pensare “cavolo, sono forti questi ragazzi; è fortunata la nazione che potrà costruirsi su di loro”. Poi, immediatamente, ho realizzato che stavo commettendo un tragico errore (ed eccola, l’ultima lezione). Non mi importa se lo ius soli sia legge o meno, non mi importa che i loro genitori non siano italiani, del colore della loro pelle e meno che mai dei loro nomi esotici. Anche se il Parlamento non se n’è ancora accorto, Silvanus e Mohamed sono Italiani. Mohamed è nato in Italia, mentre Silvanus è venuto nel nostro paese all’età di tredici anni, entrambi parlano la nostra lingua (e il nostro dialetto), mangiano i nostri piatti tipici e sono andati a scuola banco a banco con i nostri figli (per questo spesso conoscono la storia d’Italia meglio di quella della nazione di origine dei loro genitori).

Sono ragazzi italiani. Italiani. E ne sono orgogliosi. Per questo è fortunata la nostra nazione. Perché potrà costruirsi e rinnovarsi grazie a loro, alle loro idee e al loro coraggio. E sta diventando un posto migliore ogni giorno, nonostante i nostri governanti. Ce lo dovremmo ricordare sempre. Ancora di più quando sentiamo giornalisti e politici normalizzare o trovare una giustificazione per i violenti atti di razzismo che stanno accadendo. Noi siamo la nazione dell’accoglienza. Lo siamo sempre stati. E continueremo a esserlo.

Grazie ragazzi. Grazie davvero.

Alessio Pascucci