“Campo magnetico tra attore e pubblico”

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Interpretare i classici della letteratura sul palcoscenico, coinvolgendo gli spettatori, è un dono che pochissimi attori come Fabrizio Gifuni possiedono
di Giovanni Zucconi

Non so quanti di voi hanno avuto l’esperienza di ascoltare un audiolibro. In particolare quelli letti da importanti autori di teatro, come quelli che vengono trasmessi su Radio3. E’ un modo piacevole per godersi della buona letteratura, Per esempio, in questi giorni mi sto ascoltando uno splendido “I Promessi sposi”, che consiglio a tutti. I primi capitoli di questo romanzo sono “interpretati”, in modo mirabile, da un grande attore, Fabrizio Gifuni, che riesce a portarti dentro il romanzo trascinandoti con la forza delle sue parole. Ma a questo livello di coinvolgimento, basato solo sulla voce, manca una dimensione: quella del corpo dell’attore. Questa lacuna è stata superata proprio da Fabrizio Gifuni, che è riuscito a proporre sul palcoscenico opere letterarie che non erano state pensate dai loro autori per essere rappresentate in Teatro, e che invece con lui diventano materiale di scena. Ci faremo spiegare meglio quello che voglio dire, proprio dallo stesso Gifuni, che abbiamo avuto l’onore di intervistare in occasione della sua performance “L’autore e il suo doppio”, portata in scena al Teatro “Il Vascello” di Roma, dove in soli 10 giorni ha rappresentato ben quattro dei suoi lavori, tratti da altrettanti capolavori della letteratura mondiale: “Lo straniero” di Albert Camus, “Ragazzi di vita” di Pier Paolo Pasolini, “Il dio di Roserio” di Giovanni Testori e “Un certo Julio” di Julio Cortazar. Una maratona impressionante, se si considera la difficoltà di concentrarsi in così breve tempo su opere così diverse, che ha deliziato e coinvolto il pubblico che ha riempito tutte le sere il teatro.

Maestro, lei ripropone sul palcoscenico delle opere letterarie che non erano state pensate per il Teatro, e le “riscrive” utilizzando anche il suo corpo. Può spiegare meglio ai nostri lettori in che cosa consiste questa sua originale operazione culturale?

“L’idea è che le parole che si sono depositate sulle pagine di un libro, con l’unico scopo di essere lette, provengano dai corpi dei loro autori. Credo che il passaggio di staccare queste parole dalla dimensione orizzontale delle pagine in cui si trovano, per riportarle nella loro sede naturale che è il corpo, sia un’operazione assolutamente naturale. Fare questo significa, molto concretamente e molto semplicemente, ricordare che quelle parole provengono da un corpo. Le parole provengono sempre da un corpo, che è quello dello scrittore, del poeta che le ha generate. Io le riporto al corpo e alla voce, che è sempre corpo. Non bisogna mai dimenticarsi che la voce è la parte più segreta e più intima del corpo. Riportarle nella loro sede naturale permette, ad alcuni testi, in questo caso quattro grandi testi della letteratura mondiale, di acquisire una tridimensionalità nello spazio e, in alcuni casi, di essere addirittura più direttamente comprensibili.”

Sembra tutto molto semplice e naturale

“Quello che è successo in questi giorni, a partire con “Lo straniero” di Camus, vale più di ogni parola… Si è creato con questo testo una comunione talmente forte con il pubblico, da non aver bisogno di molte spiegazioni.”

Intende che il pubblico partecipa alla sua rappresentazione? Questo lo posso confermare per esperienza diretta.

“Quello a cui io tengo in particolar modo di affermare, è che in questa rassegna di studi teatrali che sto portando in questi 10 giorni al Teatro Vascello, c’è l’idea che quello che accade in una sala teatrale, deve accadere nella piena interezza della sala. Cioè, quello che succede sul palco, tanto per intenderci, è solo una parte dello spettacolo. Se non si crea un campo magnetico tra i corpi in scena e i corpi degli spettatori, se non si crea questo campo magnetico, accade ben poco. Allora quello che in questi giorni è successo al teatro Vascello, e che mi ha riempito di grande gioia, è che c’è sempre stata un’esperienza di questo genere. Chi era in teatro può raccontare quello che intendo sicuramente meglio di me.”

Tutti e quattro i testi che lei propone al Teatro Vascello non erano stati pensati per essere rappresentati in teatro.

Questa rassegna, chiamiamola così, che ho chiamato “L’autore e il suo doppio”, ha un filo comune, che è quello di portare sulla scena materiali non pensati e non destinati in origine al Teatro. Ho deciso di fare questo perché mi sono sempre più convinto, in questi anni, che abbiamo a disposizione degli straordinari testi, non pensati in origine per essere interpretati sulla scena, ma che hanno un enorme potenziale teatrale.”

Come li sceglie questi testi? Li sceglie lei o la scelgono loro?

“Ci scegliamo a vicenda. Alcune volte c’è un tramite occasionale, perché gli incontri non sono mai casuali. Con Pasolini c’è una frequentazione antica. Prima da lettore e poi da uomo di teatro. Il primo spettacolo in cui sono stato anche autore oltre che attore con la regia di Giuseppe Bertolucci, “ ’Na specie de cadavere lunghissimo” risale al 2004, e da allora l’officina Pasolini rimane sempre aperta. Un po’ come l’officina di Gadda. Sono due autori da cui non tolgo mai le mani, e su cui torno periodicamente. “Lo straniero” di Camus, per esempio, mi aspettava da chissà quanto tempo. L’incontro è stato occasionato dal circolo dei lettori di Torino che qualche anno fa mi propose per il festival “Torino Spiritualità” di fare una serata unica al Teatro Carignano. L’emozione di quella serata è stata tanto forte da farmi decidere di proseguire il lavoro su questo testo, che poi è diventato il mio spettacolo che ha girato di più in questi anni, anche in grandi teatri. Ho anche ricevuto la “Maschera d’oro” per il migliore interprete di monologo.”

Secondo lei tutte le opere letterarie possono essere interpretate in questo modo?

“No. Partiamo dal presupposto che la cosa è assolutamente soggettiva. Quello che può essere un potenziale teatrale per me, può non esserlo per un altro. Io credo che ci siano alcuni materiali non pensati per il teatro che hanno una fortissima carica teatrale. Altri sono testi che, a mio avviso, non acquisterebbero nulla in più rispetto ad una lettura silenziosa. Per questi non c’è bisogno di scomodare la gente e portarla in teatro per ascoltarti. “

C’è qualche testo che vorresti rappresentare in maniera particolare, e che per qualche motivo non hai ancora fatto?

“No. Come dicevamo all’inizio, e come diceva anche lei, i testi ti vengono in contro, ti parlano. Non ho ancora dei progetti in questo senso, ma le posso dire che ci sono alcuni testi della letteratura europea che sono sicuramente carichi di un’irresistibile dimensione teatrale, e che per questo sono stati portati in scena diverse volte. Sono i capolavori di Dostoevskij. Il “Delitto e Castigo” e “L’idiota” sono stati ridotti tante volte per il teatro. Pur non avendo scritto nulla per il teatro, a differenza di Čechov per esempio, Dostoevskij scriveva comunque con una tale forza e una tale tridimensionalità, che basta trascinare i suoi testi in scena con un adeguato lavoro di drammaturgia perché possano vivere anche teatralmente. E così tanti altri testi.”  

 

Parliamo di altro. Quale è secondo lei, lo stato di salute del teatro italiano?

“Dobbiamo distinguere. Se ci riferiamo ai soggetti che fanno parte della sfera teatrale, cioè gli attori e i drammaturghi, credo che da questo punto di vista ci sia una notevole vitalità. Siamo però in un epoca storica di transizione. Con la morte di Luca Ronconi si è chiusa una stagione che è partita dal dopoguerra, e di cui sono stati i massimi interpreti Giorgio Strehler e proprio Luca Ronconi. Ma quella stagione si è chiusa, e siamo in attesa di vedere quali forme nuove potranno nascere. Viviamo quindi in un epoca di transizione, con tutti i rischi e tutte le incertezze che questo comporta. Però da questo punto di vista il Teatro è sicuramente vitale. Per quanto riguarda invece le Istituzioni e come queste guardano al Teatro, così come al cinema o all’attività artistica nel suo complesso, la percezione è radicalmente diversa. Ed è molto molto molto povera. La percezione è di un sistema debole. C’è purtroppo una forte disattenzione, salvo rare eccezioni, e rare isole ancora protette.”

Una domanda un po’ più personale. Scorrendo il suo curriculum ci rendiamo conto di quante cose ha fatto nella sua carriera. Cinema, teatro, audiolibri. Viene da dire che lei vive più sul palcoscenico che nella vita reale Passa più tempo a interpretare qualcun altro, che a essere Fabrizio Gifuni. Non è destabilizzante essere, per la maggior parte della propria vita, qualcun altro?

“No. Uno dei rari privilegi che io intravedo in questo mestiere, che ne ha veramente pochi rispetto a ad altri, ma che sbaraglia qualsiasi tipo di privilegio materiale, è il fatto che questo lavoro, se fatto in un certo modo, ti permette di azzerare la distanza tra quello che sei e quello che fai. Quello che sei e quello che fai coincide. Quindi non c’è un Fabrizio Gifuni fuori o dentro la scena. Io sono quello che faccio. Naturalmente poi nella vita quotidiana, come tutti, faccia anche altro…

Sono d’accordo. E’ veramente un privilegio impagabile. Questo vuole dire che però cambia la sua personalità nel tempo a seconda dei personaggi che interpreta?

“No. Assolutamente no. Perché quello che io cerco di fare è esattamente l’opposto rispetto all’idea dell’attore che interpreta vari ruoli e che si perde nei personaggi. Quello che io cerco di far, ogni volta, è di svuotarmi completamente, annullarmi il più possibile per accogliere quello a cui devo prestare temporaneamente il corpo. Quanto più io riesco a dimenticare me stesso in quell’arco di tempo, quanto più riesco ad abbandonarmi, tanto più ci sarà poi un lavoro di sottrazione e non di sovrapposizione. Io cerco di mettermi nella disponibilità di accogliere i testi e i ruoli. Non c’è quindi il problema di come uscire dai personaggi che interpreto.”

Quali sono i suoi progetti futuri?

“I miei programmi futuri sono tutti legati alla mia vita teatrale e a quella cinematografica. Ci sono diversi progetti in cantiere, anche a breve, ma visto che per il Cinema, fino a quando non partono le cose non si può dire di essere partiti, non ne parlerei adesso.”